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Un transessuale nel castello di Kafka

di Egon Botteghi

in La Metamorfosi 3 dicembre 2012

Mi chiamo Egon, ma potrei chiamarti Marco, Andrea, Luca, Gabriele. Sono uno dei tanti uomini transessuali italiani, persone cioè che, nati in un corpo biologicamente femminile, si accorgono di appartenere al genere opposto e iniziano un lungo percorso per adeguare la loro immagine al maschile. La nostra realtà era assolutamente sconosciuta in Italia fino a pochi anni fa, ma, grazie all’impegno di alcuni di noi di non nascondersi e di fare attivismo, usando anche mezzi come questo sito che è stato ed è un riferimento per tanti, sta lentamente emergendo, con tutti i problemi, le gioie ed i dolori che questa comporta.

Uno dei più grossi problemi pratici è il nostro rapporto con i tribunali, che sono chiamati, secondo la legge 164, che dal 1982 regola in Italia il “cambiamento di sesso”, a legiferare su quello che possiamo fare o non fare con i nostri corpi.

La persona transessuale infatti, non ha la determinazione dal proprio corpo, ma deve chiedere il “permesso” alla classe medica e legale, per ottenere quel riconoscimento nel genere che sente proprio e che gli potrà permettere una vita più serena.

Io, come credo la totalità dei transessuali, ho avuto avvisagli della mia “condizione” fin dalla tenera età, ma i condizionamenti sociali e la scarsità di informazioni che mi facevano sentire più un mostro che una “normale” variabile del genere umano, mi hanno portato a rivolgermi ad un centro specializzato in dig in età più che adulta.

Dig è l’acronimo di “disforia di genere”, la malattia di cui soffriamo noi transessuali e che ci permette di usufruite della possibilità data per legge di “cambiare corpo”. Noi transessuali, quindi siamo ancora dei malati psichiatrici, malati tutti particolari, dal momento che dobbiamo essere assolutamente sani per quanto riguarda il resto della nostra vita psichica, pena l’esclusione dalla legge, a cui viene curato il corpo e non la mente, e che, nella stragrande maggioranza, andiamo dallo psichiatra con un autodiagnosi.

Quindi io, alla veneranda età di 39 anni, mi sono rivolto ad un ospedale italiano, all’interno del quale c’è questa equipe medica composta da vari psichiatri, psicologi ed un endocrinologo, spiegando quello che mi sentivo e cercando di capire insieme a loro se la diagnosi di dig che mi avrebbe permesso l’accesso alle cura ormonali a base di testosterone e quindi un primo, rilevantissimo cambiamento di aspetto che mi avrebbe reso uomo agli occhi del mondo, era quello di cui io avessi bisogno per il mio benessere. Dopo nove mesi di colloqui psichiatrici, somministrazioni di test, visite endocrinologiche, esami di vario tipo, è stata formulata la mia diagnosi di dig, firmata da due psichiatri, uno psicologo ed un endocrinologo.

Con questa sono passato ad una terapia ormonale che in questo momento ha reso il mio aspetto esteriore, da vestito, completamente maschile.

A questo punto ho nominato un avvocato che presentasse nel tribunale della mia città tutta la documentazione necessaria per presentare l’istanza della riassegnazione del sesso, che in Italia è obbligatoria per ottenere il cambio dei documenti. In pratica, se, avendo un aspetto ormai maschile, vuoi avere anche i documenti conformi al tuo apparire (che è poi anche il tuo essere) devi obbligatoriamente affrontare delle operazioni, che nel nostro caso di ftm, sono tutte demolitive, e cioè la rimozione del seno e delle ovaie.

Per fare queste operazioni però devi avere il consenso del giudice che chiede appunto la presentazione della diagnosi di disforia di genere.

Così, a Giugno del 2011, il mio avvocato presenta le carte in tribunale ed il 20 Settembre del 2012 vengo convocato per la prima udienza dal giudice che mi è stato assegnato.

Il giudice mi fa una buona impressione, sembra che la sua posizione sia quella di non chiedere ulteriori accertamenti per valutare la mia disforia, visto la presenza di una documentazioni chiara proveniente da professionisti di un ospedale e quindi della nostra sanitĂ  pubblica.

Però bisogna passare un’altra udienza per avere il tempo di nominare il pubblico ministero, ed anche lì sono contento che il giudice capisca la mia urgenza e ci rimandi ad appena un mese dopo, il 17 Ottobre.

In quella udienza il pm neanche si presenta, ma per il giudice questo non ha nessuna importanza e sembra ribadire il concetto che le “carte cantino” e che si andrà direttamente alla collegiale che mi darà la sentenza per le operazioni e quindi la possibilità di inserirmi nelle liste degli ospedali italiani che tali operazioni eseguono.

Invece, la doccia fredda: il 7 Novembre ricevo una mail dallo studio del mio legale, con il quale mi comunica che è stato nominato il ctu, cioè un ulteriore accertamento tecnico del tribunale, che naturalmente sarà a mie spese e che allungherà ancora i tempi già infiniti, e che magari può anche negarmi la possibilità di operarmi.

Mi allega anche l’ordinanza, che mi viene anche riletta dal giudice nell’udienza del 21 Novembre, dove il medico chiamato come perito (che tra l’altro presta opera nello stesso ospedale che al momento mi segue per la terapia ormonale) accetta l’incarico e presta giuramento.

Dato il tempo che il perito si prende per fare il suo lavoro (che, a sua detta, consisterà nel risentire i medici che mi hanno già valutato) la prossima volta udienza è fissata per il 7 Marzo pv.:

Il fulcro dell’ordinanza è il seguente:

“Considerando che dalla suddetta documentazione risulta, nella parte attrice ( cioè io, ndr), l’esistenza di tratti di inadeguatezza, oltre che l’idoneità degli originari caratteri sessuali a determinare un disagio significativo sul piano clinico, sociale e relazionale, ritenuto tuttavia, che, dalla documentazione degli atti non emerge il carattere indispensabile dell’adeguamento chirurgico dei caratteri sessuali quale necessario passaggio per una più compiuta realizzazione della personalità della parte attrice, elemento imprescindibile ai fini della decisione richiesta in ordine all’autorizzazione del trattamento chirurgico…etc, etc”

Rimango di stucco, basito, attonito, arrabbiato, frustrato, con il gelo dentro…ma più che altro mi chiedo “Cosa avrà voluto dire?”

Non può mettere in dubbio le carte da me portate in quanto provenienti dal sistema sanitario nazionale (quindi se i medici avessero sbagliato la diagnosi, cosa succederebbe? Poteri fargli causa?), però mette in dubbio la necessità di intervenire chirurgicamente per il mio benessere.

Perfetto. Riconosce quindi che ci sono delle persone transessuali che possono non sentire la necessitĂ  di intervenire chirurgicamente, e che magari trovano la loro serenitĂ , il loro equilibrio solo con la terapia ormonale? Bene. Ma per vivere serenamente ho bisogno di un lavoro, di un’accettazione sociale, della tutela alla mia privacy. E come posso avere tutto questo se devo andare in giro con i documenti al femminile e la faccia da uomo? E poi è sicuro che io mi senta a mio agio con la barba e le tette?

Allora perché mi obbligate per legge a fare gli interventi demolitivi per ottenere il cambio anagrafico e poi prendete in considerazione l’idea di negarmene l’accesso? Volete forse dire che mi darete il cambio dei documenti, di cui naturalmente ho bisogno per una vita decente, senza farmi fare gli interventi? Alleluja! Finalmente una rivoluzione nella legislatura italiana che i transessuali necessitano da tanto tempo.

Invece sarà tristemente il solito scenario, si faranno degli accertamenti inutili in quanto assoluta ripetizione di cose che sono già state presentate, si allungheranno i tempi di una decisione che tenderà a ricalcare quello che i medici hanno già decretato (se il percorso è fatto di un tot di step, è chiaro che se uno viene ritenuto idoneo ad entrare, poi, gli si dà anche la possibilità di portarlo a conclusione), ed io, che ho già perso il lavoro a causa della mia condizione, mi dovrò pagare gli onore del CTU deciso dal tribunale.

Altrimenti, se io venissi bloccato, che cosa avranno creato? Una persona che ha diritto di prendere ormoni, che però non può operarsi e che non può cambiare i documenti. Qual’è il mio status? Transgender? Va benissimo, per molti sarebbe qualcosa in cui si riconoscono, ma per cui vorrebbero anche degli strumenti giuridici adeguati per veder protetta la loro vita e la qualità di questa.

Ma in tutto questo, la rabbia più grande deriva dalla mia reazione alla lettura dell’ordinanza.

Tutto queste domande mi frullavano in testa, anche se ero pietrificato dal disappunto, avevo il giudice di fronte a me e potevo chiedere spiegazioni sul suo operato, bastava che aprissi bocca. Invece sono rimasto lì, come una statua di sale, e per quale motivo? Perché non volevo far perdere tempo! Si stava decidendo della mia vita, ed io me ne sono stato muto perché il mio pensiero è andato al mio avvocato, che aveva un’altra udienza in un’altra stanza, a tutta la ressa di legulei con i loro clienti che aspettavano il proprio turno…sono così abituato ad essere uno scomodo impiccio, una cosa venuta male, una creatura con pochi diritti che queste sono le mie reazioni.

Me ne sto lì, a grattare sulla porta del palazzo della legge, a mendicare la grazia, come il personaggio del racconto di Kafka, che invecchiò e morì davanti alla porta della torre della legge, invece che entrare come era suo diritto e suo destino fare.

About The Author

Egon Botteghi

Attivista antispecista e per i diritti GLBTIQ. Fondatore della Fattoria per la Pace Ippoasi (2008-2012). Laureato in filosofia, fa parte del collettivo anarcoqueer femminista antispecista Anguane e della redazione di antispecismo.net; cofondatore di intersexioni, è referente toscano di Rete Genitori Rainbow e referente nazionale per la genitorialità trans. Ha ideato il primo convegno nazionale “Liberazione GENERale. Tavola rotonda sulle correlazioni tra antispecismo, antisessismo, intersessualità e omotransfobia” (Osteria Nuova, Firenze, 2013) volto a mettere in evidenza le interconnessioni tra antispecismo e lotta per le minoranze (per sesso/genere, etnia, identità di genere, orientamenti sessuali).

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