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MODIFICAZIONI

Copertina FaPMODIFICAZIONI. MGF, trans e inter-sex

di Beatrice Busi

in Femministe a parole

Come scriveva Gianna Pomata nell’articolo ritenuto fondativo degli studi di storia delle donne in Italia, «niente, forse, è più affascinante del modo in cui le differenze fisiologiche tra i sessi vengono percepite e interpretate nei vari sistemi di simboli di una cultura; niente sembra più elaborato e complesso dell’articolazione simbolica di quel che noi tendiamo a dare per scontato come un grezzo ‘dato biologico’» (Pomata, 1981, p. 1438). Nella seconda metà del Novecento, lo sguardo delle teorie femministe sul corpo e i suoi attributi è stato caratterizzato dalla tensione epistemologica tra costruttivismo ed essenzialismo (cfr. Sesso/genere). La strategia della storicizzazione e della relativizzazione culturale, da un lato, e la decostruzione del «corpo naturale» da parte degli studi femministi sulla scienza, dall’altro, hanno però aperto un campo d’interpretazione e risignificazione della materialità corporea, segnato dalla contestazione al modello binario di sesso e genere (cfr. Biomedicina).

Nella geografia degli organi senza corpo ritagliata dal dispositivo eteronormativo, il cui funzionamento richiede una rigida separazione tra maschile e femminile, i genitali rivestono il ruolo del significante socio-sessuale per eccellenza. Per usare un’espressione che Beatriz Preciado mutua da Foucault, è su questa « ‘tavola operativa’  astratta» strutturata dall’ideale regolativo binario maschio/femmina che «l’identità sessuale viene nuovamente e continuamente definita, non a partire da dati biologici ma in relazione a un a-priori anatomico-politico ben preciso, una sorta di imperativo che impone la coerenza del corpo in quanto corpo sessuato» (Preciado, 2002, pp. 97-98). La genitalità si costituisce dunque come spazio di iscrizione culturale, terreno di gioco tra produzione del sesso, sovraiscrizione del genere, dispositivi di sessualità, codificazione della razza. In questo contesto, le modificazioni rituali e biomediche, che siano eteroimposte o autodeterminate, assumono uno specifico significato: un groviglio fatto di controllo biopolitico, normalizzazione, disciplinamento politico-sessuale ma anche piano d’azione per interferenze molecolari, sito di contestazione ed esercizi di libertà.

Uno degli argomenti più convincenti della tesi di Thomas Walter Laqueur riguardo all’emersione e all’affermazione relativamente recente del modello binario della differenza sessuale, è suffragato proprio dai testi e dalle rappresentazioni anatomiche degli organi sessuali maschili e femminili, dall’età classica fino al Settecento (Laqueur, 1992). Versione minore di gradazione del maschile, la «donna» come categoria ontologica non esisteva ancora. Le rappresentazioni enfatizzavano le omologie tra corpo maschile e femminile piuttosto che le differenze, producendo una visione dei genitali femminili come un ripiegamento di quelli maschili, dove la clitoride costituiva un elemento perturbante. Quale fosse la sua morfologia, come dovesse essere nominata ma anche se potesse essere considerata un normale attributo dei corpi femminili anziché un indizio di ermafroditismo – può una donna avere un pene? -, sono state questioni dibattute a lungo nella medicina moderna. Secondo l’interpretazione offerta da numerosi resoconti etnografici, la pratica tradizionale della modificazione «chirurgica» dei genitali femminili diffusa in alcune regioni del Nord Africa e dell’Africa sub-sahariana, avrebbe principalmente la funzione sociale di enfatizzare la differenza sessuale costruendo un particolare tipo di femminilità (Boddy, 1982; James e Robertson, 2000). Paradossalmente, dunque, il rimodellamento dell’anatomia femminile attraverso l’escissione delle «vestigia» degli organi sessuali maschili viene a configurarsi come un supplemento di genere, necessario ad assicurare la de-sessualizzazione del femminile, o meglio, il sacrificio della sessualità femminile in nome della centralità della maternità nel ruolo sociale delle donne. Come sottolinea Spivak, del resto, poiché «la clitoride sfugge all’arruolamento riproduttivo», «la clitoridectomia simbolica è sempre stata il ‘normale’ accesso alla femminilità e l‘inconfessato nome della maternità» (Spivak, 1981, p. 151).

A dimostrazione di quanto il piano simbolico possa essere così pericolosamente sdrucciolevole da tradursi letteralmente sul piano materiale senza mediazioni, nell’Inghilterra e soprattutto nell’America vittoriana, la clitoridectomia venne utilizzata dalla metà dell’Ottocento fino ai primi decenni del Novecento come terapia medica contro la masturbazione femminile, l’isteria ed altre cosiddette «malattie nervose» femminili (Moscucci, 1996; O’Connell, 2005).

Ma la violenza epistemica occidentale, inclusa quella espressa dal femminismo bianco cooptato a sostegno del discorso coloniale, se ha rappresentato le mutilazioni genitali praticate nelle società tradizionali africane come barbarico rituale irrazionale, alterizzandole come primitive e riducendo le donne africane allo status dei loro genitali, ha legittimato le proprie pratiche rivestendole di scientificità, ovvero, rappresentandole come non culturalmente determinate (James e Robertson, 2002).

L’esempio più eclatante della fallacia di questo doppio standard è certamente la storia, tutta occidentale, del protocollo medico di gestione dell’intersessualità. Il termine intersessualità non è una categoria discreta, bensì racchiude un insieme di condizioni congenite, cromosomiche ed ormonali, attualmente indicate nella letteratura scientifica con la definizione di Disordini dello sviluppo sessuale (DSD, l’acronimo inglese), che rendono estremamente difficile la determinazione del sesso biologico in base al binarismo maschio-femmina. Nonostante l’assenza di statistiche istituzionali, in base al numero di operazioni di «normalizzazione» chirurgica effettuate negli ospedali statunintensi, si stima che le condizioni intersessuali riguardino uno su 1500 nuovi nati (Fausto Sterling, 2000).

Negli anni ‘50 del Novecento, il gruppo di ricerca della Johns Hopkins University di Baltimora diretto dallo psicologo John Money, aveva sviluppato un modello teorico-clinico che, imponendo la re-iscrizione chirurgica e ormonale del sesso in età infantile sui corpi che presentano caratteristiche ambigue, si proponeva di assicurare alle persone intersessuali uno sviluppo psicosessuale «corretto» in base ad un’identificazione o maschile o femminile. Un modello essenzialmente «genitalista» che, nonostante sia stato drammaticamente contestato dalle persone intersessuali, smentito nelle sua pretesa di scientificità anche all’interno della comunità medica e recentemente sottoposto a revisione, fornisce ancora oggi le basi per il protocollo standard. La decisione di socializzare un neonato alla maschilità, infatti, viene generalmente incentrata sulla potenziale performatività penetrativa del pene e poiché tecnicamente continua ad essere più semplice ricostruire con «successo» una vagina, il genere e il sesso maschile vengono assegnati solo in presenza di un fallo di dimensioni adeguate, a volte anche indipendentemente dalla mappa genetico-cromosomica. In caso contrario, si opta per la costruzione di una vagina «apparentemente normale» ed una conseguente socializzazione alla femminilità. Si tratta dunque di un set di interventi di «chirurgia estetica genitale» e relativo adeguamento ormonale sostenuto da uno schema eteronormativo radicato in un rigido binarismo sessuale, che gli attivisti e le attiviste intersessuali hanno spesso descritto proprio come il corrispettivo occidentale e high-tech delle mutilazioni genitali femminili (MGF) praticate nelle società tradizionali africane.

Nel 1997, l’Intersex society of North America, la prima grande associazione per i diritti degli intersessuali fondata nel 1993 da Cheryl Chase – oggi Bo Laurent -, promosse una campagna per l’inclusione della chirurgia pediatrica «correttiva» delle condizioni intersessuali nella legge federale statunitense che bandiva le MGF, definendola per assonanza intersex genital mutilation (IGM). Ma, come racconta Chase, le femministe del «primo-mondo» e i media che avevano supportato la legge scelsero di ignorare le istanze del movimento intersessuale (Chase, 2002). La stessa Fran P. Hosken, autrice dell’omonimo Report del 1978 che venne presentato all’Organizzazione mondiale per la sanità (OMS) dando il via al movimento globale anti MGF, rispose personalmente a Chase che quel movimento non poteva occuparsi di «eccezioni biologiche» (ib., p. 141). Secondo Chase, le persone intersessuali hanno avuto difficoltà ad ottenere il sostegno del femminismo americano mainstream, non solo a causa della pervasiva e mimetica retorica neocolonialista che descriveva la clitoridectomia come pratica estranea al primo mondo, ma anche perché la condizione intersessuale parla anche dell’instabilità della categoria «donna», categoria fondante del discorso del femminismo del primo mondo. «Per estensione – scrive Chase – non essendo normativamente femminili o donne, le persone intersessuali non possono essere soggetti propri del femminismo» (p. 145).

Secondo Elisa Arfini, è proprio nel tentativo di stabilizzazione del binarismo maschio/femmina che il discorso biomedico ha operato ancorandolo al «genitalismo» che si può individuare il continuum anatomo-politico tra medicalizzazione dell’intersessualità e patologizzazione transessuale (Arfini, 2007). Gli Standards of care for gender identity disorders, infatti, le linee guida cliniche internazionali che codificano l’adeguamento medico-chirurgico e quello psico-sociale per le persone transessuali che desiderano accedere al percorso legale di riattribuzione del sesso, continuano ad essere incentrate, da un lato, su un percorso psichiatrico estremamente conservatore in materia di norme di genere e, dall’altro, sulla modificazione chirurgica dei genitali. Come mette in luce Butler, se rimane ancora tutta aperta la domanda etica e clinica sul perché ad una questione che dovrebbe riguardare il piano psichico venga data principalmente una risposta su quello somatico, nelle comunità trans emergono sempre di più identità, pre e post-operazione, che eccedono radicalmente il dimorfismo di genere (Butler, 2006, p. 93). Le persone transgender, sempre più spesso, mettono in discussione il sistema binario maschio/femmina scegliendo di rivendicare la propria «ambiguità» rispetto a quel sistema e chiedendo piuttosto al resto della società di rivedere le proprie concezioni di genere (Califia, 1997). Il prezzo della «normalizzazione», infatti, è quello della stigmatizzazione dell’esperienza transessuale, ancora oggi classificata come patologia psichiatrica sia nel DSM, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali redatto dall’American psychiatric association che dovrebbe giungere alla sua controversa V edizione nel 2013, sia nell’ICD, la Classificazione internazionale delle malattie stilata dall’OMS.

Proprio a partire dall’esperienza gay, lesbica, trans e intersessuale, le teorie queer hanno radicalmente contestato la violenza del riduzionismo insito nei binarismi, valorizzando invece le dislocazioni prodotte dai processi di soggettivazione personale e politica (cfr. Uomo). Come ricorda Butler, il fatto che alla materializzazione del «sesso» sia necessaria una ripetizione continua e forzata delle norme di «genere», «indica che la materializzazione non è mai completa, che i corpi non si adattano mai completamente alle norme che sollecitano la loro materializzazione. In verità sono le instabilità, le possibilità di rimaterializzazione aperte da questo processo che contraddistinguono un campo nel quale la forza della legge regolativa può essere rivolta contro se stessa al fine di produrre riarticolazioni che mettano in discussione la forza egemonica della legge stessa» (Butler, 1996, pp. 1-2).

Le pratiche di sovrascrittura del sesso sul sesso, dunque, non fanno altro che svelarne la natura instabile. A maggior ragione se queste pratiche non riguardano solo i corpi «indisciplinati», ma anche i corpi con una morfologia standard.

La breve storia delle modificazioni tecnologiche dei significanti sessuali corporei che abbiamo tratteggiato, ci mette in guardia sia rispetto alla coesistenza di tecniche disciplinari e dispositivi di controllo simultaneamente attivi nel pattugliamento dei confini sessuali sia rispetto al rischio di esiti ri-naturalizzanti del maschile e del femminile sempre in agguato, anche nelle pratiche di resistenza e contestazione. Ci richiede, dunque, anche un ripensamento della scatola degli attrezzi teorica a disposizione dei femminismi.

Se la distinzione sesso/genere è stata un potentissimo strumento analitico ed interpretativo dei modelli sociali e culturali, infatti, esibisce oggi anche molti dei suoi limiti.

Da un lato, alla luce della sua geneaologia, la categoria di «genere» si presenta in tutta la sua problematicità: è proprio nel laboratorio di sperimentazione delle «tecnologie del sesso» della Johns Hopkins University di Money, infatti, che è emersa la sua prima formulazione, pericolosamente implicata negli eccessi di un costruzionismo «spinto», lasciato agire in una cornice eteronormativa. Dall’altro, l’idea di una separazione di campo tra sesso e genere ha anche avvallato una divisione del lavoro teorico, funzionale al perpetuarsi di una concezione del corpo sessuato come realtà stabile e immutabile di esclusivo dominio scientifico, tutta imbrigliata nel binarismo riduzionista.

Secondo Elsa Dorlin, il modello binario del sesso, costretto a confrontarsi continuamente con fenomeni irriducibili a sé come l’intersessualità, ha rappresentato un vero e proprio «ostacolo epistemologico» anche per la comprensione scientifica dei processi di sessuazione, che rimane ancora oggi balbettante di fronte ai continui imprevedibili scarti che si producono tra determinazione e differenziazione, tra eredità e sviluppo (Dorlin, 2008c). Già nel 1993, la biologa e storica della scienza Anne Fausto-Sterling in un articolo dal titolo The five sexes: why male and female are not enough, utilizzando la classificazione dell’intersessualità allora in uso nella letteratura scientifica, aveva proposto di considerare, oltre allo standard maschile e femminile, anche ermafroditismo, pseudo-ermafroditismo maschile e pseudo-ermafroditismo femminile come categorie sessuali a tutti gli effetti. Una provocazione utile a prefigurare l’utopia femminista di una biologia liberata dalle norme di genere, dove il sesso è un continuum di infinite variazioni che sfidano anche la definizione in cinque categorie (Fausto-Sterling, 1993).

La sostituzione di un modello binario con un modello polimorfico del sesso e del genere, non può assicurare di per sé la fine della violenza e delle discriminazioni. Ma certamente, come conclude con amara ironia Hird (2000, p. 358), richiederebbe, perlomeno alla loro legittimazione, una ginnastica mentale molto più complessa.

Beatrice Busi è assegnista presso l’Università di Verona e fa parte del Centro di ricerca Politesse – Politiche e Teorie della sessualità. Dottoressa di ricerca in Filosofia della scienza, è stata borsista della Fondazione Ruberti con un progetto di ricerca sulla funzione di modelli e metafore nel pensiero biologico contemporaneo, occupandosi in particolare delle teorie su determinazione e differenziazione sessuale. Nell’ambito dei suoi studi sugli stereotipi di genere nella ricerca scientifica, si è occupata inoltre della storia dei protocolli medici nei casi di intersessualità e delle loro implicazioni etiche.

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