L’autenticità di essere
Lettera aperta in risposta ad un articolo del Corriere della Sera
di Daria Campriani e Storm Turchi
Gentile Monica Ricci Sargentini,
siamo un gruppo di persone che lavora nell’ambito delle discriminazioni di sesso/genere, etnia, orientamento sessuale, identità di genere, e questioni intersex (relative cioè a persone che nascono con caratteristiche di sesso cromosomico, gonadico e/o anatomico, atipiche).
Abbiamo letto il Suo articolo, che salutava la nomina di Lily Madigan, a “funzionario femminile” (funzionaria rappresentante del forum femminile) della contea Rochester, con un certo disappunto.
Ciò che riteniamo particolarmente problematico è l’intento implicito di far apparire, da un lato, la donna in questione e le donne transgender in generale come non autentiche, e, dall’altro, come una minaccia per l’incolumità e per l’identità delle donne cisgender.
Lily si identifica come donna e come tale fa esperienza di sé, vive ed è. È una cosa che nessunə, a parte la stessa Lily, può mettere in discussione, perché attiene alla sua identità; Lily è una donna transgender, e, proprio perché è una persona transgender, porta un’esperienza dell’essere donna non meno autentica rispetto all’esperienza delle donne cisgender.
Ancora: “Lo statuto del Labour party prevede che la rappresentante delle donne sia di sesso femminile ma Madigan è convinta di poter adempiere ai doveri del ruolo anche se non ha ancora fatto la transizione e conserva i genitali maschili.” Nelle numerose voci in cui lo statuto del Labour Party richiama l’istituto delle “quote rosa”, parla sempre di “donne”, non di “sesso femminile”.
Anche l’articolo che regola la carica che Lily andrà a ricoprire (l’Art IX del Capitolo 7: “Funzionari”, così come tutto il Capitolo 10 – “Norme per i forum femminili”) parla di funzionario femminile, non di funzionario di sesso femminile.
Prendiamo ciò che Lei dice poco prima: “La sua nomina accende nuovamente la polemica tra il movimento trans e le femministe che lamentano la cancellazione delle donne in nome della difesa dei diritti di una minoranza”.
Qui viene confuso il ruolo sociale di genere con l’identità di genere della persona, cioè viene confuso tutto ciò che da una persona, in questo caso una donna, socialmente ci si aspetta che sia e che faccia in quanto appartenente ad un genere.
Ciò che una persona deve fare in quanto è stata classificata come donna, quali vestiti deve indossare, che cosa ci si aspetta che faccia, quali lavori svolga, che, in quanto donna, sia anche moglie e madre, che gestisca l’economia domestica, piuttosto che l’economia ‘pubblica’, che si occupi della famiglia, piuttosto che coprire un ruolo professionale di prestigio; ovvero le aspettative rispetto a ciò che effettivamente quella persona è e vuole essere e/o fare, ciò che vive, ciò di cui fa esperienza nel momento in cui si interfaccia con le altre persone, cosa la fa sentire a proprio agio nel momento in cui esprime la parte più autentica e profonda di sé, il particolare modo che ha di esprimere all’esterno la sua identità; insomma, ciò che è.
Anche nel caso di una donna cisgender, la distonia tra la sua identità di genere e il ruolo di genere che la società impone può essere molto marcata. Non è corretto ricondurre in modo deterministico l’identità di genere ai genitali.
Pure questo passaggio non è corretto: “Madigan era finita sui giornali l’anno scorso quando aveva minacciato di far causa alla scuola cattolica da lei frequentata in Kent perché le impediva di indossare l’uniforme femminile.”
Lily non ha minacciato di far causa alla scuola perché le impedivano di indossare l’uniforme femminile: ha assunto un avvocato per difendere il suo diritto ad esprimere la propria identità di genere femminile; diritto sancito dall’Equality Act 2010, la legislazione antidiscriminatoria del Regno Unito. Madigan ha semplicemente fatto valere un diritto che le spettava per legge: quello di potersi esprimere liberamente nell’ambito scolastico.
Troviamo problematica anche questa affermazione: “Mentre il movimento trans pensa che la libertà di genere debba garantire l’accesso agli spazi per sole donne a chiunque si senta tale.”
Il movimento trans, almeno quello del Regno Unito, ha compreso il ruolo puramente simbolico di una uniforme e non confonde l’uniforme con l’identità. Tenendo separate la sfera sociale, fatta di convenzioni modificabili, qualora non servano o siano contrarie agli scopi che si prefigge una specifica istituzione (in questo caso il benessere psico-fisico di Madigan nell’ambito scolastico), e la sfera individuale (in questo caso l’identità di genere di una studentessa).
L’identità di genere, come si diceva, non si può ricondurre né a una questione esclusivamente di apparato genitale né esclusivamente all’aspetto dell’espressione di genere esterna. Ad ogni modo, in quel passaggio Lei sembra mettere in discussione proprio il valore della libertà individuale. Non si tratta di libertà di genere, ma della libertà di affermare il proprio diritto all’autodeterminazione, in base al quale solo noi possiamo sapere chi siamo, così come esclusivamente nostro è il corpo che ci appartiene e con il quale, e sul quale, solo noi possiamo decidere ciò che può o non può, ciò che deve o non deve essere fatto.
Esistono studi accademici di genere, condotti ormai dagli anni Settanta del secolo scorso, nati per capire come le strutture non istituzionali di potere determinano i rapporti di forza all’interno delle società contemporanee; sono studi iniziati per comprendere perché deve essere preferito l’uomo bianco, maschio, abile e riproduttivo, e come mai debba essere privilegiata l’eterosessualità, sino al limite della patologizzazione di tutti gli altri corpi, pensieri e comportamenti, e di tutte le altre realtà sociali che non si fondano su questa primazia.
Tali studi nascono dalla necessità di risolvere problemi, non di provocarli; anche se questo significa abbandonare i propri pregiudizi su come la realtà sociale in cui viviamo si manifesta.
Le preoccupazioni e le teorie espresse dagli studi di genere sono stati confermati da studi empirici e statistici: per esempio, il documentario della BBC “No more boys and girls” evidenzia come vengano sin da subito trattati diversamente femmine e maschi e quanto questo trattamento influisca sull’autostima e sul loro futuro, mentre uno studio mondiale ha dimostrato quanto ruoli di genere rigidi e stereotipati e le aspettative societarie connesse mettano a rischio il benessere psico-fisico degli adolescenti.
Il paragrafo finale e quello precedente sono esemplari della Sua costruzione della persona transgender come una minaccia per la società in generale e per le donne cisgender in particolare. Per usare un termine coniato dal criminologo Stanley Cohen, nel Suo articolo si va via via intensificando una rappresentazione che porta al “panico morale”.
Prima mette in dubbio la veridicità dell’identità di Madigan, poi insinua che le donne transgender siano un problema per l’identità femminile e infine dà esempi accuratamente selezionati per confermare la Sua versione dei fatti mostrandoci quanto non solo le persone transgender siano deleterie ma anche pericolose per la società civile.
Senza alcun riferimento a quanto scritto nei paragrafi precedenti e quindi senza alcun riferimento a Madigan (che con la giustizia non ha avuto niente a che vedere), comincia ad illustrare un attacco alle femministe e continua descrivendo due persone transgender in prigione condannate per stupro.
Anche volendo tralasciare che tra le persone transgender nelle carceri del Regno Unito è più probabile il suicidio, a causa del fatto di essere state ospitate nella sezione sbagliata, che non la molestia alle altre compagne di cella (su questo aspetto della vita carceraria delle donne trans, si rimanda a “Transgender Behind Prisons Walls”, e agli articoli che trattano dei suicidi delle detenute Vicki Thompson e Jenny Swift), non si può disconoscere che il caso di Jessica Winfield, da lei citata, è completamente diverso da come è stato trattato: Jessica non è stata allontanata perché aggrediva le compagne di cella, ma per evitare aggressioni da parte delle compagne di cella e dello staff della prigione, a causa delle aggressioni subite dalla stessa Jessica dieci anni prima, sempre in carcere.
Stando al suo ragionamento sembra che una persona non possa dirsi transgender e ottenere un riconoscimento sociale senza dover rispondere delle colpe (presunte o dimostrate) di altre persone transgender.
Secondo Shon Faye, il problema principale delle molestie alle donne nelle carceri è dato dalle guardie carcerarie. Tuttavia nel Suo articolo viene fatto uso dei pochi casi – dubbi o addirittura artefatti – di molestie da parte di donne transgender, per limitare ulteriormente i loro diritti. E il gioco riesce facilmente, poiché nell’immaginario collettivo, imbevuto di forti pregiudizi transfobici, le donne trans sono considerate in modo ancora più sospetto degli uomini cisgender.
Questo tipo di distorsione cognitiva che lei incoraggia con il Suo articolo ha un nome: “hate speech”, e, come diceva Luciana Goisis, al convegno di Firenze per i 10 anni di Rete Lenford, l’hate speech “è prodromico dell’hate crime”.
Non miriamo quindi a toglierle il sacrosanto diritto di pensarla come meglio crede, ma dobbiamo necessariamente protestare contro l’uso sistematico di una narrativa svilente che mira a rinforzare gli stereotipi sulle persone transgender e che si basa su distorsioni cognitive.
Le narrative possono uccidere (ne sanno qualcosa le vittime di bullismo): chi ha un ruolo pubblico come il Suo ha il dovere morale di scrivere nel modo più rispettoso e corretto, a prescindere dalle proprie convinzioni personali.
Vlad
per me una donna transgender ha il diritto di stare nella sezione femminile del carcere e di occuparsi di diritti delle donne quindi anche di questioni come gravidanze e aborti di cui non potrà mai avere esperienza. Comunque la differenza sessuale qualcosa conta, il fatto che la maggioranza statistica delle donne nasca con un corpo e dei genitali che non sono lo stesso corpo e gli stessi genitali con cui nasce la maggioranza degli uomini non è una cosa irrilevante, non è irrilevante quando si parla di aborto e gpa (ad esempio io penso che la donna incinta debba sempre poter decidere se abortire o tenere con lei ciò che cresce nel suo grembo anche nel caso delle gpa) o quando dobbiamo scegliere i nostri partner sessuali (non essere attratto da un certo corpo e preferirne altri non è discriminazione). I nostri corpi contano, avere un corpo piuttosto che un altro conta per la nostra identità di genere e giustamente, forse le persone della minoranza trans lo sanno ancor più delle persone nate con un corpo corrispondente alla loro identità di genere dato che, anche senza operarsi ai genitali, giustamente devono modificare il corpo in direzione del genere d’elezione