L’angelo del cambiamento.
Ovvero la nascita di un uomo transessuale
di Egon Botteghi in anguane 1 Luglio 2013
foto di Sarah Kashna
Sono nato quarantadue anni fa in una città di mare nel centro Italia, un porto di media grandezza edificato, a partire dal quattrocento, con scarti di umanità.
Sarà per questa origine, tra galeotti e donne di “malaffare”, che, nonostante la mentalità provinciale, non ho ricordo di attacchi omofobi o razzisti su questo territorio, che, già nel Seicento, fu il primo luogo del paese dove gli ebrei poterono esercitare i loro commerci e vivere liberamente fuori dal ghetto 1.
Nacqui di domenica, d’estate, e sembra che mio padre ne fosse molto irritato, avendo dovuto rinunciare alla partitella di calcio con gli amici. Mia madre invece era stanca e stressata, essendo io in ritardo di 20 giorni sulla tabella di marcia redatta dal pediatra. Avevo già una sorella, di cinque anni più grande, che, quando mi vide all’ospedale, esposto come un povero pesce sui banchi del mercato, tutto urlante e pelato, scoppiò in lacrime. Ero troppo brutto e lei non tollerava l’idea di dovermi portare a casa sua.
Questi sono i racconti sulla mia nascita che mi faceva mia madre, e sarà da qui che ho cominciato a coltivare l’idea di non essere molto amato ed apprezzato dalla mia famiglia. Mia madre raccontava ancora che, quando mi portò la prima volta dal pediatra, lui esclamò “Tolga quel giovanotto dalla bilancia, che me la rompe!”. D’altra parte, fin dall’asilo, svettavo per la mia stazza su tutt* i compagn*.
E così, già a partire dalla socializzazione coatta delle scuole materne, imparai ad invidiare le mie esili e femminili compagne, che sembravano possedere una grazia innata a me totalmente assente, ed a sentirmici fuori posto.
Mi sentivo diverso da quelle fanciulle e ricordo vari episodi in cui, cercai di imitarle, anche se non capivo le regole di quei comportamenti e non li sentivo miei (come quel giorno che vennero ad annunciarci, in prima elementare, che la nostra maestra era morta. L’avevamo vista solo pochi giorni all’inizio dell’anno, perché era già malata. Tutte le bambine scoppiarono in un pianto da perfette prefiche, mentre io non sentivo niente, perché era per noi una sconosciuta. Però alla fine mi vergognai di non essere come loro e mi sforzai di piangere).
Mi piacevano i giochi considerati maschili, come le macchinine e quelli fisici, come il rugby. Ricordo benissimo, anche se si tratta di una cosa accaduta quando avevo quattro anni, che per un Natale pretesi di avere un camion, e me lo vedo ancora davanti, con la luce rossa che girava.
D’altra parte a quell’età feci il mio primo ragionamento rivelatore, se i miei genitori avessero saputo cosa stessi cercando di dire.
Non ho molti ricordi di quell’epoca, eppure mi sembra ancora di essere lì, in una cucina chiara, davanti al frigorifero. Sto dicendo a mia madre ed a mio padre che, se mi fossi messo una carota davanti, sarei stato un perfetto maschietto. Loro mi redarguirono, prendendomi anche un po’ in giro, e da lì il mio destino sembrò compiersi: compresi, con estrema chiarezza pur nella mia ingenuità, di essere un uomo senza la dovuta attrezzatura ed una donna senza la voglia e la possibilità di esserlo.
Ho dato altri segnali della mia condizione, ma non potevano che cadere nel vuoto in un ambiente completamente impreparato ad accogliere un bambino come me, dove la transessualità forse non si conosceva nemmeno attraverso i peggiori stereotipi.
Sopratutto, visto che il più delle volte ero preso in giro per il fatto di non riuscire a stare la passo con il mio genere e non volere adeguarmi ad esso, mi convinsi che ci fosse qualcosa di sbagliato in me e mi tenevo molte cose dentro, come la fantasia fissa di essere un ragazzo.
Da quando cominciai a fare giochi di ruolo, a giocare al gioco del “per finta-per-davvero”, io interpretavo sempre ruoli maschili. Non vedevo l’ora che scendesse la sera e andare a letto, dove, solo e sdraiato, inventavo tantissime avventure che vedevano protagonista il ragazzo che mi sentivo di essere nell’intimo.
Quando, ad undici anni, tra la massima sorpresa dei miei genitori, comincia a giocare con le barbie, in realtà le trasformavo in splendidi ragazzi protagonisti di complicatissime storie, a volte anche un po’ “scabrose”.
Sarà anche per questo che mi vergognavo molto di queste mie fantasie, e non ne parlavo con nessuno. Credevo fosse una cosa molto brutta e sporca, come mi apparve brutto che a dodici anni, in quell’inferno che furono le scuole medie, mi trovai a guardare per la prima volta una ragazza con “altri” occhi.
Ho ancora davanti l’immagine di quella compagna di classe, vedo perfettamente com’era vestita quel giorno, gli sbuffi sulle maniche della camicetta, i suoi soffici capelli biondi…
Dopo essere stato uno scolaro modello, ma con un’unica grande amica del cuore di cui ero gelosissimo, alle elementari, ed un ribelle picchiatore alle medie, venne finalmente il liceo. Lì capitai, per fortuna, “nelle mani” di una insegnante di lettere che ci insegnò ad apprezzare la diversità, incontrai il mio primo amico transgender, e, in una gita in Inghilterra nell’estate dei quindici anni, conobbi quello che fu il mio inseparabile amico fino ai vent’anni, omosessuale.
Con Sandro cominciai ad esplorare l’ambiente omosessuale, fare teatro e, nello stesso momento, mi imbattei nella mia grande passione: l’equitazione. Ho montato a cavallo per venticinque anni, prima come sport e poi come professione.
Ho vissuto qualche anno come lesbica mascolina, gratificandomi del fatto che le mie compagne mi trattassero come un “uomo”; ma c’era sempre qualcosa che non funzionava, che mi faceva sentire incompleto.
La scena omosessuale allora era molto separatista, e non era valutata l’esistenza dei bisessual*, ed io, che mi sono sempre sentito tale, venivo redarguito dalla mie compagne come fossi un traditore della causa gay o come se tradissi il mio ruolo di “maschio” all’interno della coppia.
Alla fine del liceo decisi di iscrivermi a filosofia, e lì, il primo giorno, incontrai quello che divenne il mio primo ragazzo. Ero “diventato” una carinissima ragazza bisessuale, intrigante e perennemente vestita di nero. Quando però finì quella storia, insieme al corso di studi, ero di nuovo una “maschissima” lesbica accanto ad una donna che mi dava del “lui”.
Decisi, dopo la laurea, di lasciare il mondo accademico e di buttarmi completamente nel turbolento mondo dei cavalli, nell’universo chiuso degli ippodromi. Vissi così dieci anni tra levatacce mattutine, galoppi sfrenati e sfrenate serate in discoteca, ed anche lì ero una donna bisessuale molto sexy e fu la prima volta che apprezzai il mio fisico, diventato un fascio di muscoli.
Mentre lavoravo così con i cavalli da corsa, conobbi quello che divenne il padre dei miei figl* e mio marito. Era un ragazzo di dieci anni più giovane di me, che gestiva un centro ippico ed aveva bisogno di un istruttore di equitazione. Gli avevano suggerito il mio nome e quando lo incontrai per valutare la sua proposta, rimasi colpito dalla sua professionalità, dalla sua onestà e dal modo impeccabile con cui teneva i cavalli.
Nonostante avessi già un lavoro, accettai, perché mi piaceva l’ambiente che aveva creato e mi sacrificai per un anno lavorando la mattina all’ippodromo ed il pomeriggio e nei fine settimana nel suo centro ippico. Fu un periodo in cui mi sentivo libero, dividevo la casa con una ragazza tedesca, avevo una situazione economica tranquilla ed una vita sessuale libera.
Il giorno di inizio primavera in cui il mio futuro coniuge, che allora era solo un datore di lavoro di cui avevo molta stima, mi dichiarò il suo amore, mi crollò il mondo addosso: scappai in macchina fino al bar dell’ippodromo e confessai i miei problemi alla barista che mi versava la birra, come nel più classico dei film americani.
Ero in crisi: non avevo mai pensato a quel ragazzo se non come amico, ma adesso che “mi chiedeva la mano” come avrei potuto rifiutare?
Io mi sentivo una trentenne un po’ sbandata, che faceva uso ludico di droghe sintetiche, che viveva in un ambiente degradato come quello degli ippodromo, e mi trovavo ad essere oggetto di interesse da parte di un uomo più giovane, benestante, di impeccabili principi morali…era come se stesse passando il treno chiamato “sistemati” ed io credetti di non poter permettermi di lasciarlo passare.
Così accettai la sua corte e lui si installò seduta stante nella mia casa, da cui fuggirono la mia inquilina ed il “mio” gatto. Dopo qualche mese dissi addio alle piste da corsa ed iniziai a lavorare tutta la giornata nel centro ippico come istruttore e come artiere.
Si realizzò il sogno del “mio uomo”: vivere e lavorare con la “sua donna”, stare ventiquattro ore insieme e condividere tutto ma, sopratutto, controllarla in tutto. Io gli avevo raccontato, al tempo della nostra amicizia, di me, delle mie esperienze, del mio orientamento bisessuale, delle mie incursioni nei “paradisi artificiali”. Il risultato fu che lui non sopportava il mio passato, che denigrava tutto quello che ero e che avevo fatto, ed era assolutamente geloso delle donne.
Mi sentivo soffocato, svalutato, prigioniero suo e del suo modo ossessivo di lavorare, del modo in cui aveva costruito una gabbia intorno a noi, da come mi aveva fatto terra bruciata intorno.
Nacque però, cercato da me, il nostro primo figlio e fu questo, credo, che ci tenne ancora insieme, aggiunto al fatto che lui per me rappresentava quella stabilità di affetto che andavo cercando con ossessione, per riparare a quanto mia madre mi diceva quando ero piccolo: che non mi avrebbe voluto e che, con le mie sorelle, le avevo rovinato la vita.
La prima gravidanza fu difficile, io non volevo ammettere di essere diverso, di dovermi limitare in qualcosa e lavorai fino al giorno prima di partorire. Quando rimasi incinta per la seconda volta, cercai di vivermela in maniera più tranquilla, e di immedesimarmi il più possibile nel ruolo della madre accudente.
Nel frattempo altre cose erano cambiate: io e mio marito eravamo diventati vegani, avevamo chiuso il maneggio per ragioni etiche e lo avevamo trasformato in un rifugio per animali da reddito, ospitando, insieme ai cavalli da noi liberati, mucche, asini, capre, pecore, maiali, galline, conigli.
Invece di insegnare ad andare a cavallo, facevo visite guidate agli animali da fattoria che vivevano nel grande recinto di tre ettari, cercando di trasmettere il rispetto per tutti gli esseri viventi. Assecondando un forte desiderio di mio marito, che invece io sentivo più come una imposizione, trasformammo la nostra casa in una comune vegana.
In quel momento, finito il periodo di “maternage” di mia figlia che aveva ormai tre anni, stressato dalla convivenza con altre persone in uno spazio troppo stretto, esacerbato dalle regole “monastiche” dettate dal “mio lui” e dalla sua pretesa di sapere come deve vivere un essere umano, l’uomo che dormiva dentro di me si risvegliò in maniera prorompente.
Quella porta che stava dentro la mia anima, su cui c’era scritto a caratteri cubitali “non aprire” pena il vivere e morire da solo perché troppo diverso, si spalancò e quello che uscì non volle più rientrare, come invece aveva sempre fatto nelle epoche precedenti della mia vita.
Ricominciai a vivere nel mio mondo di fantasia, dove io ero un uomo. Lavoravo con gli animali, parlavo con la gente, ma in realtà la mia anima era in quell’universo dove io ero un ragazzo che si chiamava Egon. Cominciai a riflettere sul perché non facessi più sesso con mio marito da anni e decisi di parlarne con lui.
Partimmo per un fine settimana ed io gli confidai dove andavo con il cervello quando sembrava che invece fossi lì con lui, quale stanza attraversava la mia anima, piena di personaggi bizzarri e misteriosi, tutti rigorosamente maschili.
Quella volta, invece di arrabbiarsi, di urlare dicendo come sempre che ero una “testa di cazzo”, mi ascoltò e accettò la mia richiesta di trattarmi come un uomo, almeno nell’intimità. Da quel giorno non vedevo l’ora che scendesse la sera, che rimanessimo insieme noi due soli, per vivere questa dimensione per me magica.
Decisi di andare fino in fondo e continuare ad investigare le ragioni del mio comportamento. Lo iato però tra la realtà e le mie fantasie era duro da sopportare e cominciai a bere per continuare a comportarmi come nulla fosse e per adempiere ai miei doveri durante il giorno.
Spaventati, ci rivolgemmo ad una terapeuta, che si rivelò un aiuto preziosissimo ed un’anima bellissima. Con lei tirai fuori il ragazzo che stava prigioniero, arrabbiato e tremante dentro di me e decisi di rivolgermi a degli specialisti di “disturbi di genere”. Andai così a Firenze, all’ospedale di Careggi, dove, nel reparto di endocrinologia, c’è un centro per la “cura” del “dig”2.
Mio marito mi accompagnò ai primi appuntamenti, ma quando si accorse che non sarei “guarito” nella maniera che si sarebbe aspettato, cioè tornando ad essere la sua “mogliettina”, ma che sarei invece diventato l’uomo che ero, abbandonò tutto e si chiuse, cosa anche comprensibile se non fosse stata poi accompagnato da comportamenti scorrettissimi dettati dalla rabbia verso di me, nel suo dolore.
Fu un anno durissimo, abitavo ancora con lui pur non essendo una coppia, litigavamo selvaggiamente, la preoccupazione ed il senso di colpa per i figli mi attanagliavano, la mia famiglia d’origine non mi parlava più. Lavorare con il mio ex si rivelò impossibile, ed alla fine fui spinto ad abbandonare tutto, il mio lavoro, la mia casa, gli animali non umani che avevo accudito per anni.
Cercai una nuova casa in cui vivere insieme ai miei figl* nei giorni prestabiliti (nel frattempo mi ero separato consensualmente ed avevo ottenuto l’affido condiviso) e trovai un nuovo lavoro.
Da lì, grazie anche alla riuscita del rapporto terapeutico con la psicologa del consultorio transgenere di Torre del Lago che iniziai a frequentare contestualmente al Careggi di Firenze, cominciò una vera rinascita, o forse meglio dire, un ritrovamento, libero dall’ansia e dai sensi di colpa per non essere quello che ci si sarebbe aspettati per norma.
La mia più grande paura era naturalmente per i figl*: temevo che la mia transizione li avrebbe condizionati negativamente per tutta la vita, creando loro un trauma psicologico talmente forte da danneggiarli per sempre. Invece, seguendo i chiari consigli della “mia psicologa”, i miei figl* mi hanno visto cambiare e mascolinizzarmi, grazie alla cura ormonale e all’operazione di mastoplastica, senza dare nessun segno di sofferenza.
Fondamentale è stata la loro giovane età (tre e cinque anni all’epoca dell’inizio del percorso), per cui non erano ancora sclerotizzat* in convincimenti sui generi, l’ambiente aperto in cui hanno comunque sempre vissuto, dove passavano decine di persone di tutte le forme che venivano attratti dagli animali non umani e dallo stile di vita vegan della nostra casa, ma sopratutto la sincerità con cui abbiamo sempre affrontato l’argomento.
Ogni volta che loro mi chiedevano una cosa, e dovevo aspettare che fossero loro a domandare e non anticiparli con delle informazioni non richieste, io rispondevo con assoluta sincerità e semplicità. Non bisogna confondere i bambini con bugie e false informazioni, è proprio la poca chiarezza a fare danni, non le verità comunicate con delicatezza ed in modo per loro comprensibile.
Adesso, che hanno cinque e otto anni, sanno che nel mondo ci sono uomini a cui piacciono le donne, uomini a cui piacciono gli uomini o tutti e due, così come donne a cui piacciono le donne e donne a cui piacciono gli uomini o entrambi, che ci sono persone nate “uomini” che si sentono donne e che affrontano il lungo percorso per essere tali anche nel fisico e agli occhi del mondo, come ci sono quelle nate donne ma che non si sentono tali, ma uomini, tra cui la loro madre, che per questo è cambiata nel fisico ma non nel suo ruolo, che è quello di accudirli, di proteggerli e sopratutto di amarli come loro vogliono essere amati.
Credo che invece di considerarsi “menomati” possano avere una marcia in più, perché sono lungo il percorso verso cui spero una società più egualitaria stia andando. Questo è quello per cui lotto ogni giorno.
Potrebbero arrivare tempi bui, in cui magari verranno sbeffeggiati per le diversità di cui sono portatori, ma il mio compito è renderli forti e sicuri, ovvero amati, per affrontare questo, e nello stesso tempo non rinuncio a me stesso per poi magari riversare su di loro le mie frustrazioni.
La mia esperienza sfata anche un altro mito, quello per cui i bambini verrebbero confusi da genitori o adulti di riferimento non eterosessuali e/o transessuali: i miei figli, di fronte all’esperienza di donne MtF o uomini FtM come me, hanno subito manifestato di sentirsi bene e a proprio agio con il loro sesso biologico di appartenenza.
Loro sanno chi sono loro e sanno chi sono io, e questo mi mette nelle condizioni di essere me stesso davanti a tutto il mondo, senza dovermi più nascondere.
1. Per favorire il popolamento della città, Ferdinando I, granduca di Toscana, promulgò varie leggi che andarono a formare la Costituzione Livornina, nel 1653, indirizzata sopratutto agli ebrei ed ai mercanti di tutte le nazioni che fossero venuti ad abitare a Livorno. Tra gli aspetti più importanti c’erano la garanzia della libertà di culto, di professione religiosa e politica.
2. “Disforia di genere”, così come viene classificata la condizione transessuale dal DSM IV-TR (manuale diagnostico dei disturbi mentali).