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Intervista a Marco Reggio

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“Fall” dipinto di Hartmut Kiewert, artista antispecista 

Intervista a Marco Reggio attivista antispecista, componente dell’associazione Oltre la Specie e redattore della rivista Liberazioni, su Troglovegan

1) Per iniziare ti riproponiamo la domanda che ti ponemmo al primo incontro di Liberazione Generale a Firenze. La liberazione animale è connessa a quella umana, oppure (come molti ancora sostengono) si tratta di due questioni separate?

Credo francamente sia impossibile considerare le due “questioni” separate. Probabilmente, non lo fanno neppure quei “molti” che lo sostengono. In primo luogo, perchè i due temi sono intrecciati materialmente in una molteplicità di strutture di potere, di sfruttamento, di produzione di discorsi. In secondo luogo, perchè a rigor di logica si potrebbe dire che esiste solo una complessa “questione animale”, dato che anche noi siamo animali. Tuttavia, esistono forme di sfruttamento materiale, forme di esclusione simbolica, che coinvolgono in modo specifico i non umani, ed è a queste che si fa riferimento quando si parla di “separare” le questioni: alcune specie animali vengono allevate per produrre carne, per esempio, secondo modalità che hanno dei paralleli in alcune attività produttive che coinvolgono lavoratori o schiavi umani, ma certamente c’è una specificità in questa istituzione che è l’allevamento (e il mattatoio); altre specie vengono utilizzate nei circhi, e anche in questo caso possiamo fare molti paralleli, ma dobbiamo considerare che non c’è nulla di veramente comparabile nel campo dello sfruttamento umano, o dell’industria dello spettacolo, nè in termini giuridici nè in termini di vissuto degli sfruttati; e così via. Quindi è possibile separare un fenomeno e anche battersi contro di esso “localmente”, in modo circoscritto, senza mettere in primo piano necessariamente tutte le altre questioni a cui è legato, pur tenendole – e questo per me è molto importante – sempre presenti.
C’è un altro problema, comunque, nel parlare di questioni separate. Gli animali (non umani) non sono un insieme compatto, con cui ci relazioniamo sempre allo stesso modo. Questo significa che non esiste la questione animale, ma tante questioni animali, e che se volessimo adottare uno sguardo che prende in considerazione i problemi uno alla volta, dovremmo separare anche la questione degli animali da reddito da quella degli animali da compagnia, quella dei selvatici da quella dei sinantropi, ecc.. E poi potremmo separare la lotta contro lo sfruttamento di una specie dalla lotta contro lo sfruttamento di un’altra (e in effetti, talvolta c’è chi lo fa). Questa tendenza a separare le questioni credo sia anche una reazione, che ben comprendo, ad un particolare modo di vivere la tendenza opposta, cioè all’idea che esista una teoria, o una visione della realtà, in grado di abbracciare in modo molto semplice tutti i temi, dalle guerre, alla violenza maschile sulle donne, all’omotransfobia, al disastro ecologico, ai mattatoi… In questo senso, mi sento di dire che dovremmo abbandonare l’idea – un po’ ottocentesca forse – di una teoria “forte” che sappia spiegare tutto con pochi concetti ben congegnati. Questo approccio, evidentemente, ha come suo corrispettivo nella prassi l’idea di rivoluzione, anzi di Rivoluzione. Ma credo che davvero, da un po’ di decenni – forse da Foucault in poi – tutti i movimenti usino con più cautela questa parola, e spesso la sostituiscano con altre parole meno “pretenziose”. Questo però – tornando alla domanda – non può significare che, siccome non abbiamo a disposizione uno schema interpretativo totalizzante (il comunismo, l’anarchismo, l’antispecismo), allora gli eventi del mondo siano slegati fra loro. Si tratta di esplorare dei nessi circoscritti, e sulla base di questi condurre le lotte. Questi nessi possono essere concettuali: durante il primo incontro di Liberazione Generale di Firenze parlavamo di intersex, invisibilizzazione delle persone transgender, del sessismo nel movimento animalista e dell’idea che mangiare animali sia “naturale”, e tutto questo ci mostrava alcuni particolari nessi fra alcune particolari questioni, per esempio fra diverse rivendicazioni di autodeterminazione sui propri corpi, in particolare nell’ambito medico (l’integrità del corpo intersessuato e quella delle cavie animali nei laboratori), oppure fra diverse forme di essenzializzazione dei soggetti (le mucche che sono “fatte per” diventare bistecche, le donne che sono “fatte per” essere oggetti di consumo maschile, fino alla “naturalità” del modello eterosessuale che diventa di fatto eterosessista). Ma questi nessi possono essere anche molto pratici, come mostra in questo periodo la mobilitazione contro EXPO 2015 a Milano, che vede persone di varia provenienza reagire ad un’aggressione del capitale ai danni di umani, non umani, ecosistemi, modi di vita, reddito, agibilità democratica.

2) Durante i nostri incontri sulla questione animale ci capita di incontrare persone un po’ refrattarie all’elaborazione teorica e filosofica. Qual è, secondo la tua opinione, il ruolo dei filosofi nella lotta per la liberazione animale?

Capita anche a me. Anzi, potrei dire che talvolta mi capita di incontrare persone che non sono refrattarie all’elaborazione teorica… Non so se questo sia un problema tipico dell’ambiente antispecista, o se sia il frutto di una situazione generale di passività nei confronti della riflessione. Come esperienza personale, per me il ruolo dei filosofi (e delle filosofe) è imprescindibile, nel senso che per me è stato importantissimo. Mi sono avvicinato alle lotte antispeciste grazie all’influenza di una filosofa femminista e antispecista, Agnese Pignataro, e credo che se lo avessi fatto in modo diverso ora sarei meno soddisfatto e anche meno “utile”, per così dire. E poi ho continuato a frequentare chi ha interesse a pensare, leggere e scrivere. Nella maggior parte dei casi si tratta di persone che si sono anche “sporcate le mani” nelle lotte, come Agnese: non so se questo sia necessario in assoluto, ma a me sembra importante. D’altronde, l’altra persona fondamentale per avvicinarmi alla questione animale è stata per me Davide Majocchi, uno dei fondatori delle maggiori campagne radicali in Italia (Chiudere Morini, SHAC, AIP, ecc.), che passa le sue giornate in mezzo ai cani e da queste relazioni trae energie e contenuti. Accanto a un’attività di cura e alle campagne sul territorio, legge, scrive ed esprime quello che i dibattiti stimolano in lui. Al di là, però, della reciproca influenza di teoria e prassi incarnate nelle singole persone, l’ambito antispecista dovrebbe avere più spazi di discussione per contaminare questi due aspetti. Non mi piace l’idea che esista un ruolo assegnato ai “filosofi” (qui il maschile è d’obbligo…). Per evitarlo, abbiamo bisogno da una parte che il pensiero non sia sempre visto a priori come una “sega mentale” (un’espressione non casualmente sessuofobica), e dall’altra che tutt* abbiano spazi per contribuire al dibattito, indipendentemente dalle credenziali accademiche o di altro tipo.

3) Che cos’è il movimento antispecista? Esiste qualcosa che potremmo definire in questo modo?

Questa è una domanda facile! No, non esiste qualcosa che si possa definire così. Ma questo costituisce realmente un problema? Forse non più di tanto. In fondo, altri movimenti sono felicemente plurali, disseminati, in perenne conflitto interno. Quando parliamo di “movimento”, a volte dimentichiamo cosa significhi la parola stessa. Quello che ci manca, semmai, è una maggiore chiarezza sulle differenze fra gruppi, fra lotte specifiche, affinché il dialogo possa svilupparsi senza (troppi) equivoci di fondo. Pensare in termini di appartenenza a un movimento significa adottare una postura identitaria, secondo me. Lo si vede bene nelle diatribe su come definirsi e su quale sia il gruppo di cui vogliamo sentirci parte. Ma a un movimento non si “appartiene”: a un movimento si partecipa, lo si sfiora, lo si tocca, ci si lascia trasportare per un tratto, si prova a dargli delle spinte, a farsi spingere, investire, ci si muove con il suo muoversi, al limite lo si osserva. Per questo, il problema è se ci sia un fenomeno storico che risponde a delle questioni storiche, come il livello di sofferenza raggiunta dai non umani per causa di alcune classi di umani oppure le sfide lanciate dalla convivenza con individui di altre specie, dai cani e gatti, ai gabbiani, o ai topi. In questo senso la risposta è… sì. Esiste un interesse per questi problemi, esistono forme di indignazione e nuovi modi di intendere le relazioni interspecifiche, improntate a qualcosa che, con una forzatura, potremmo definire “antispecista”, cioè ad una messa in discussione dell’antropocentrismo. Sì, esiste un movimento antispecista.

4) Qual è la differenza basilare e imprescindibile tra animalismo e antispecismo?

Non penso che esista qualcosa come una differenza “imprescindibile”, nè tantomeno che io o altr* possano avere la presunzione di stabilirla. Come termini, potrebbero essere considerati entrambi sufficientemente ampi ed evocativi per definire un movimento, o delle persone, o una “tensione” verso qualcosa. In fondo, “animalismo” designa il fatto di schierarsi per un gruppo, gli animali, mettendo al centro i problemi relativi alla loro condizione nella società. Un po’ come il termine “femminismo”, può essere usato senza troppi problemi, meglio al plurale, perché si può parlare di animalismo zoofilo, protezionista, liberazionista, radicale, moderato, di sinistra, di destra, e così via. Tuttavia, il termine è spesso connotato in un senso particolare: la difesa degli animali non umani unita a un disinteresse per i temi relativi alle disuguaglianze umane. Al contrario, per antispecismo spesso si intende una specie di animalismo “politicizzato”, nel senso che comprende la questione dello sfruttamento animale e quella dello sfruttamento umano, o almeno cerca di metterle in connessione. Anche in questo caso, però, c’è molta confusione, perché di per sé il termine significa pressappoco “opposizione alla discriminazione su base di specie”. Anche se al posto di “discriminazione” mettiamo “sfruttamento materiale” stiamo parlando di un termine che, intuitivamente, si comprende bene pensando all’antirazzismo, per esempio. Quello che oggi definiamo “primo antispecismo” (Singer e Regan) potrebbe in sostanza essere anche chiamato “animalismo”, il che è abbastanza sintomatico. C’è poi da precisare che questo antispecismo “politicizzato” rifiuta di fatto il trasversalismo politico, il qualunquismo animalista (quello di alcuni gruppi di attivisti e quello di alcune elaborazioni teoriche demagogiche come il “neo-animalismo”), il quale è un atteggiamento che, come ha mostrato bene il mio amico Antonio Volpe, finisce per configurarsi come un’approccio davvero di destra, quando non filo-fascista. E per opporsi alle infiltrazioni della destra estrema nel “movimento” e soprattutto all’influenza di idee qualunquiste, scioviniste, machiste, omofobiche, essenzialiste o forcaiole (per citare solo alcuni aspetti della destra cui l’animalismo è permeabile), non basta dire “io sono di sinistra”, perchè poi bisogna che la prassi antispecista lo sia, non che lo siano solo le persone. Quindi, io non so mai come definirmi, perchè non mi vergogno di essere animalista, ma so che spesso l’interlocutore/trice desidera che io precisi se sono “soltanto” animalista, e allora ha un senso specificare che si è “anche” antispecisti. Forse però ci sono modi più interessanti per dire la stessa cosa, a seconda dei propri riferimenti politici e culturali o dei propri interessi: animalista anarchic*, anarco-animalista, animalista libertari*, comunista animalista, animalista queer, vegan queer, eco-femminista, o femminista animalista, come si è implicitamente definita Beatriz Preciado di recente. Certo, se prendiamo il modo in cui i due termini sono usati in Italia, io direi che l’antispecismo si differenzia perché cerca di collegare la questione animale a quella umana e rifiuta le visioni non egualitariste in ambito umano, ed è dunque antisessista, antirazzista, antifascista, non eterocentrico, e possibilmente antiadultista e antiabilista. Tutto questo in senso generico, ovviamente, non nel senso che l’antispecismo possa definire esattamente quali sono le forme di rifiuto del patriarcato, del razzismo e così via, ma soltanto che adotta uno sguardo critico su questi temi. Perché altrimenti corriamo un grosso rischio, a mio avviso, il rischio cui ci espongono i vari (risibili) tentativi di egemonizzazione dei vari “manifesti antispecisti”, che è quello di guardare dall’alto in basso tutte le altre lotte, per il semplice fatto che pensiamo di essere “superiori” in quanto – a differenza degli/le attivist* di altri movimenti – noi saremmo delle specie di eroi che si battono soltanto per loro, i poveri animaletti (ancora la visione pietistica di cui sopra); oppure perché pensiamo di avere in mano una spiegazione valida per ogni stagione, cioè un’analisi dello specismo come madre di tutti gli “ismi”. Quest’ultima pretesa, come si vede bene osservando chi la sostiene, è fondata soltanto sul fatto di ignorare il patrimonio di analisi e di lotta degli altri movimenti, e spesso su condizioni personali privilegiate (stiamo parlando, infatti, di maschi bianchi occidentali eterosessuali adulti). Contro questo rischio, anche il pensiero “filosofico” può fornire degli anticorpi proprio mentre conduce la sua analisi sull’antropocentrismo, come hanno fatto, per esempio, Massimo Filippi e Filippo Trasatti nel loro recente “Crimini in tempo di pace”.

5) Il movimento animalista è attivo da tanti anni. Oggi sempre più persone diventano vegane e aumentano anche gli attivisti. Potresti fare un brevissimo bilancio relativo ai successi e alle sconfitte? Quali sono gli errori fondamentali che abbiamo commesso e che stiamo continuando a commettere?

Anche in questo caso, penso sarebbe presuntuoso da parte mia parlare di errori fondamentali, anche se in passato ho avuto questa presunzione. Non è facile, in questo momento storico e in un ambito in rapida evoluzione, capire se alcune tendenze costituiscono errori o se con il tempo si riveleranno “vincenti” (e viceversa), senza contare che dovremmo sempre insospettirci quando discutiamo in termini di “successi” e “fallimenti” in un mondo in cui il neo-liberismo si è affermato.

Credo che fra i “successi” vadano annoverati alcuni eventi di portata generale, cioè che investono l’opinione pubblica, e alcuni lavori che riguardano soltanto “l’interno” del movimento. Fra i primi, c’è soprattutto il successo concreto della campagna contro Green Hill. Sapete forse che non vi ho partecipato e ho criticato la sua strategia fin dall’inizio, ed anche nelle fasi finali. Continuo a pensare che il modo di porre il tema della vivisezione e di condurre la lotta presenti alcuni punti criticabili, soprattutto per come, volendo fare leva sulla facile compassione per i cani, è stata rinforzata un’idea di “animale” sostanzialmente ancora debitrice al retaggio protezionista, se non zoofilo, della nostra tradizione, quella visione dei cani, per esempio, che viene utilizzata esplicitamente da Michela Vittoria Brambilla per attirare consensi elettorali, e che molt* attivist* contro Green Hill del resto personalmente criticano. Nonostante questo, ora penso che se in Italia abbiamo un clima in cui l’opinione pubblica è attenta ad alcuni temi che riguardano gli animali, lo dobbiamo a questa campagna e all’occupazione dello stabulario di Farmacologia a Milano, come dobbiamo a questa campagna di avere aperto degli spazi di possibile confronto più “maturo” con il mondo della sperimentazione animale, spazi che non sono stati ancora occupati adeguatamente per vari motivi, fra cui la nostra impreparazione ad affrontare il dibattito su un piano etico e politico e non sul piano per me rischioso della presunta inutilità scientifica della sperimentazione sugli animali. Ma iniziano ad esserci delle eccezioni interessanti, soprattutto grazie agli interventi di Massimo Filippi sul tema.

Nella seconda categoria di eventi inserirei invece la campagna Chiudere Morini, non tanto per il suo successo (la cui portata è molto relativa), quanto perché ha creato una rottura necessaria con il mondo associazionista istituzionalizzato, facendo nascere un movimento radicale dal basso: in questo senso l’interesse per quanto è accaduto durante tale campagna riguarda l’”interno”. Poi, gli anni in cui abbiamo portato in Italia il Veggie Pride credo abbiano dato una spinta molto significativa contro l’uso di argomenti indiretti (“diventa vegetariano/vegan per la salute, per l’ambiente, per la fame nel mondo”), allora utilizzati senza spirito critico anche in ambito radicale. Infine, l’attenzione su alcuni temi, con un lavoro di controinformazione, riflessione ma anche contestazione aperta ha influenzato prese di posizione e discussioni all’interno del movimento: è il caso del concetto di “carne felice” proposto dal Progetto Bioviolenza, che, lungi dall’essere una “proprietà” di tale progetto è una questione ormai riconosciuta da molte parti del movimento, con modalità diverse. Questo si sta verificando anche con la questione della resistenza animale di cui parlate sotto.

Fra le sconfitte, certamente il problema non è tanto che ci siano state, ma è il modo in cui sono affrontate. La più importante, credo, è quella della Campagna AIP, che ha proposto un metodo “nuovo”, che ha entusiasmato molte persone, fra cui il sottoscritto, ma che si è rivelato insostenibile. Ma, appunto, il problema è che la campagna si è chiusa senza una discussione aperta e democratica sul perché: in questo modo, i motivi sono stati elaborati soltanto da poche persone “addentro” al dibattito, che ne hanno fatto, forse, tesoro per strutturare altre campagne.

Nello stesso periodo io ho partecipato attivamente a una “campagna”, la Coalizione contro la Vivisezione nelle Università, che nel suo obiettivo locale ha fallito dopo un paio di anni, e ha deciso di dirlo pubblicamente, abbozzando un’analisi dei motivi, che sono stati poi discussi in varie occasioni. Questo perché c’erano molti elementi di “rottura” con campagne precedenti che valeva la pena di valorizzare, e molti errori che ne hanno determinato invece l’insuccesso.

Una vicenda ben più significativa, però, è stata quella della campagna Shac, che ha da poco “chiuso i battenti”, dopo aver certamente creato non pochi problemi a HLS, ma al tempo stesso dovendo ammettere che non è stata in grado di fare fronte alla risposta repressiva, essenzialmente per impreparazione politica. La fine di Shac è sostanzialmente la fine di un metodo che dovrebbe farci riflettere non solo sull’efficacia (che varia spesso nel giro di pochi anni), ma sul carattere militarista e – sostanzialmente – machista di questa impostazione. Insomma, la nostra idea di conflittualità non deve per forza essere prigioniera di tali schemi.

6) Alcuni sostengono che non sia più possibile, ma altri e altre ci credono e ci sperano ancora. E’ realisticamente ipotizzabile secondo te un unico e compatto movimento animalista/antispecista orientato anche politicamente alla Liberazione Animale e al superamento dello specismo?

No, al momento non credo. Del resto, non ci sono movimenti “compatti” in nessun ambito, per cui non vedo perchè “noi” dovremmo avere più possibilità. Ammesso che lo si desideri, un movimento “unico” potrebbe fondarsi su varie cose. Per esempio, sulla teoria, ma non vedo neanche lontanamente una teoria in grado di “unificare”. Se anche ci fosse, mi sembra che storicamente le teorie di questo tipo hanno poi prodotto – anche se non in modo deterministico, è ovvio – tutta una serie di apparati autoritari e identitari. Oppure, potrebbe fondarsi semplicemente sulla volontà di “essere uniti”, come si sente spesso dire. Questo è assurdo: non si può essere unit* solo volendolo, benchè in parte gli appelli all’unità abbiano anche una certa efficacia, talvolta. E’ complesso spiegare perchè un movimento compatto non sia nè probabile nè auspicabile, ma diciamo che questo tipo di mitologia, a mio avviso, deriva da una visione del potere decisamente superata, in cui si pensava che il potere, anzi il Potere, fosse qualcosa saldamente in mano a una cerchia di persone, e potesse essere preso e utilizzato a fin di bene. Non è più possibile ragionare in questi termini. Oggi riconosciamo che il potere è una forza diffusa, che circola fra i corpi a tutti i livelli, anche se si concentra, naturalmente, che non è un principio trascendente che viene semplicemente esercitato, ma riguarda le relazioni, e che quindi non può essere appropriato da un movimento unitario, ma combattuto localmente, sia a livello delle relazioni che a livello delle istituzioni. Per questo, è interessante certamente che riusciamo a produrre rivendicazioni collettive chiare (abolire i mattatoi, gli allevamenti, chiudere uno stabilimento di morte, ecc.), ma diventa importante anche che iniziamo a discutere delle relazioni che già esistono fra animali umani e non umani, per esempio dando il nostro contributo al dibattito interno della cinofilia, che può insegnarci tantissimo in senso antispecista, ma che manca di una riflessione sul carattere politico della condizione dei cani nella “nostra” società. E le due cose non sono slegate. Come dicevano le femministe: “il personale è politico”. Qual è il nostro “personale” in questa vicenda? Quali sono le questioni personali che dobbiamo far diventare politiche? Ce ne sono tante, e ne emergeranno altre ancora: vivere con un cane o un gatto; capire come gestire i conflitti fra umani e topi, fra umani e piccioni, fra umani e gabbiani sul territorio; poter riconoscere il lutto per un non umano come lutto a tutti gli effetti; capire che cosa suscita in noi il fatto di assistere alla ribellione di un animale; capire che cosa suscita in noi la scelta di rifiutare la carne in tavola; ecc.. Queste sono domande importanti.

7) Perché la Campagna per l’abolizione della carne? Occorre abolirla per legge?

La rivendicazione per l’abolizione della carne (del latte, delle uova…) è nata in Francia essenzialmente per due motivi. Il primo era quello di stabilire un obiettivo chiaro, formulabile in modo non ambiguo, e non utopico, per quanto certamente ambizioso: abolire gli allevamenti e i macelli (nonchè, ovviamente, la caccia e la pesca). Mentre lo specismo, e forse anche lo sfruttamento animale in generale, non si possono “abolire”, qui siamo nell’ambito di una rivendicazione che in fondo è già ben nota, nella sua struttura, in altri ambiti: abolizione delle pellicce o degli allevamenti di animali da pelliccia, abolizione della corrida, dei circhi con animali o degli zoo, abolizione della sperimentazione su animali, ecc.. Perchè queste ci sembrano richieste “sensate”, mentre chiudere allevamenti e mattatoi costituisce una richiesta che noi stess* non osiamo formulare pubblicamente? Eppure, oltre il 99% degli animali uccisi viene ucciso per l’alimentazione umana, non per le pelli, la ricerca scientifica o il nostro divertimento. “Oltre il 99%” è una percentuale vera, non una provocazione. Quali che siano i motivi di questa “svista” animalista – non è questa la sede per affrontarli – è importante che chi lotta per sostenere gli altri animali dica chiaramente che questo è un obiettivo che si pone, magari nel lungo termine, ma che è un obiettivo che sostiene chiaramente, invece di trincerarsi dietro alla scelta individuale di diventare vegan. Se non lo diciamo “noi”, chi lo dirà? Come può essere credibile un movimento che esorta a non mangiare animali ma accetta che sia perfettamente legale organizzare e sovvenzionare la loro reclusione e macellazione perchè chiunque possa mangiarli?
Questo ci porta al secondo punto. L’abolizione degli allevamenti propone un cambiamento di ottica, uno spostamento dalla centralità dello stile di vita o di consumo personale (la “scelta”, la “filosofia di vita veg”, ecc.: ha tanti nomi…) alla rivendicazione pubblica di abolizione di una pratica legale e sostanzialmente istituzionalizzata. Al momento, è come se gli antischiavisti, invece di chiedere l’abolizione della schiavitù, chiedessero ai singoli di non comprare il cotone, lo zucchero o il tabacco… La critica migliore al “proselitismo vegan”, per me, resta quella di Antonella Corabi, a distanza di anni. Questo spostamento, auspicato dal movimento per l’abolizione della carne, non è una negazione della pratica personale di non mangiare animali, ma soltanto un suo riposizionamento e un suo ridimensionamento: essere vegetarian* o vegan è la modalità in cui, a livello individuale, sosteniamo questa rivendicazione di abolire gli allevamenti, a livello materiale ma soprattutto simbolico (perchè a livello materiale, il vegetarismo individuale è sostanzialmente ininfluente). Il vegetarismo diventa una manifestazione di solidarietà esplicita e vissuta sul proprio corpo nei confronti degli animali. Questo spostamento di ottica sta lentamente avvenendo forse, anche se, almeno in Italia, fra i parziali insuccessi di cui sopra, per quello che conosco io, vorrei considerare proprio il movimento per l’Abolizione della Carne, che non è stato capace di ottenere un’attenzione soddisfacente, dopo un momento di grandi mobilitazioni che hanno dato una risonanza limitata nel tempo a questa rivendicazione. A livello più ampio, invece, bisogna dire che si tratta di una delle poche iniziative che hanno davvero un respiro internazionale.
Non è detto che la legge sia necessariamente lo strumento o lo strumento principale per superare allevamenti e mattatoi. Il riferimento alla legge, inoltre, è problematico per come molt* vedono il ruolo sia del diritto che dello Stato. Occorre precisare però che “chiedere” l’abolizione di una pratica alle istituzioni non significa automaticamente nè riconoscerle come nostro punto di riferimento nè legittimarle, nè “mendicare” qualcosa. Si tratta appunto di una rivendicazione. La situazione è la seguente. Oggi, in Italia e in tutto il mondo, è permesso e incoraggiato l’assassinio di esseri senzienti, riconosciuti tali da chiunque tanto da prevedere blande normative sul “benessere” o normative un po’ più stringenti sulla tutela dei senzienti di alcune specie (cani e gatti). Di fronte a una pratica di questo tipo, come avverrebbe di fronte alla schiavitù, all’omicidio o allo stupro se fossero legali, credo che sarebbe assurdo non chiedere che non siano permesse. Questo non significa illudersi che la legge possa abolire ogni forma di sfruttamento o che abolire la carne equivalga ad abolire lo specismo, tutt’altro.

8) Ultimamente si comincia a parlare di Resistenza Animale. Ma allora anche gli animali si ribellano, resistono, cercano di riprendersi la loro libertĂ ?

… gli animali si ribellavano e resistevano anche prima che noi parlassimo di “resistenza animale”! Battute a parte, anche senza parlarne ci sono stati momenti storici in cui la capacità degli animali di ribellarsi al lavoro loro imposto è stata riconosciuta, come nel caso degli animali da trasporto nelle città occidentali prima dell’avvento della trazione a vapore. Da quando si è sviluppato quello che molti (a torto o a ragione) considerano il moderno “movimento antispecista”, diciamo dalla pubblicazione di Animal Liberation di Peter Singer, l’approccio dominante fra gli animalisti è sostanzialmente paternalistico, se non pietistico. Gli animali sono visti come i “deboli”, le “vittime”, i “senza voce”. Iniziamo, negli ultimi anni, a contestare le visioni cosiddette zoofile, in cui l’animale è un “animaletto”, un soggetto da tutelare, ma non ci accorgiamo che continuiamo a considerarci “la voce dei senza voce”. Anche per questo, il movimento animalista vede se stesso come moralmente superiore agli altri: mentre, per esempio, i neri lottano contro le discriminazioni che subiscono, le donne contro il dominio maschile, lavoratrici e lavoratori contro lo sfruttamento che li tocca in prima persona, gli animalisti sarebbero persone estremamente altruiste che lottano contro i propri stessi interessi, per qualcun altro. Benchè sia vero che tutt* noi in parte beneficiamo dello sfruttamento dei non umani, questa differenziazione netta fra queste istanze e quelle di altri movimenti non mi convince. Si dice spesso che non possa avvenire quello che è avvenuto altrove con il paternalismo, quando per esempio le donne hanno mostrato che le “loro” lotte volevano condurle autonomamente, che la parole su di sè volevano prenderla loro, che volevano lottare in prima persona. Anche se gli animali non lo faranno in questi termini (ogni situazione, del resto, ha delle specificità), già oggi mostrano chiaramente che sono loro i primi a ribellarsi, e talvolta che possono dettare l’agenda politica, in un certo senso. Come ha fatto Alexander, la giraffa fuggita dal circo a Imola e poi uccisa in strada come si fa con i “criminali” o i “devianti”, che ha dato il via a mobilitazioni molto decise contro i circhi. Come hanno fatto tanti altri animali ribelli, alcuni anche molto famosi all’estero, come Tatiana, Tyke, Tilikum.
Quando abbiamo iniziato a raccogliere materiale su quello che a tutt* sembrava un fenomeno marginale, indegno di attenzione, partivamo da questo tipo di disagio un po’ confuso nei confronti del paternalismo, e abbiamo iniziato a discuterne con varie persone, attivist* di varia estrazione, forse non casualmente anche di estrazione femminista e queer, ma anche di persone più vicine al mondo dei cani insofferenti del modo in cui la relazione fra “loro” e “noi” è vissuta in modo generoso ma pietistico, appunto. Documentando gli atti di ribellione, di resistenza – e anche di dissenso – che fanno breccia negli articoli di giornale o sui siti web, ci siamo accort* che questi atti sono molto più numerosi e frequenti di quanti si pensi. In un anno abbiamo raccolto moltissime storie, perlopiù finite male, di evasioni dagli allevamenti, dai mattatoi, dai circhi e dagli zoo, di ribellioni, aggressioni, vere e proprie richieste di aiuto. Ci siamo stupit* anche noi di quanto a volte si verificassero azioni concertate, organizzate, collettive. E questo è solo quello che “buca” il muro di gomma dei mass-media, è la punta di un iceberg. La realtà della resistenza quotidiana dei corpi animali nei lager lontani dalla vista delle persone è soltanto immaginabile. Abbiamo analizzato il fenomeno e cercato di dare delle interpretazioni, di farne un tema di dibattito, anche commentandolo in una rubrica radio per esempio, o raccogliendo materiali più “teorici” (anche il fatto di scoprire che ci fossero studiosi che, come Jason Hribal, se ne sono occupati esplicitamente è stata una sorpresa). Finalmente, se ne parla. Non abbiamo un’interpretazione univoca da offrire, nè pretendiamo di farlo. Chiunque può farlo, e del resto non è solo il campo degli animali non umani che merita un’attenzione alle forme di resistenza che tradizionalmente non vengono considerate degne di tale etichetta: si pensi ai “matti”, il cui dissenso viene facilmente patologizzato, ai bambini, ai carcerati. Ecco, pensando alla patologizzazione del dissenso, credo che constatare che gli animali si ribellano dovrebbe portarci ad usare in un senso nuovo certi termini: ribellione, dissenso, rivoluzione, insurrezione, rivolta, organizzazione. Un senso meno antropocentrico, perchè il modo in cui usiamo queste parole è stato costruito apposta per escludere questi soggetti, per dire fin da subito, “questi atti non hanno significato politico”. Io quando penso a un corpo recluso e lo vedo ribellarsi, non ho dubbi, questo è un atto politico. Certo, ammettere questo fatto ci fa scendere dal trono rassicurante di antispecisti salvatori degli animali, per metterci al loro fianco, in ascolto.

9) Che cosa possiamo fare noi umani per favorire la Resistenza Animale? E soprattutto c’entriamo qualcosa noi, con la loro resistenza?

Abbiamo pensato molto a “che cosa possiamo fare”. Il primo punto è certamente cambiare la retorica, anche continuando a fare le cose che facevamo prima. Non più “siamo la voce dei senza voce”, “liberiamo gli animali”, ecc.. Quando si chiede la chiusura di un delfinario si può farlo come forma di solidarietà e di sostegno ad una lotta che è dei delfini, per esempio. Alcune liberazioni di visoni fatte dall’ALF, per prendere un esempio molto diverso, hanno espresso nella rivendicazione il ruolo degli umani come “facilitatori” della liberazione da parte degli animali, e non come eroici “liberatori”. Del resto, se tu apri le sbarre in una prigione, non stai semplicemente aiutando qualcuno ad evadere?
Il secondo punto è sostenere pubblicamente i singoli ribelli. Data la scarsa attenzione al fenomeno, le ribellioni sono ora perlopiù di singoli, ma riescono a suscitare una solidarietà immensa, se fatte conoscere. Così è stato per Camilla, un caso che abbiamo sollevato trovando appoggio in realtà di vario tipo, oppure per Ivana, un altro caso sollevato dall’associazione Vitadacani.
L’altro punto importante è quello di costituire un terreno fertile per questo sostegno, in modo che non ci si trovi sprovvisti di fronte a questi fenomeni, che sono generalmente di carattere locale, e per i quali le istituzioni intervengono rapidamente e in modo ben organizzato (spesso veniamo a sapere di un’evasione dopo che una mucca è stata “abbattuta” o riportata al mattatoio). Qualcosa si muove, ma non è certamente semplice. Alcuni rifugi stanno iniziando a mostrare sensibilità sul tema, proponendosi in casi come questi per accogliere i fuggitivi. Questo, infatti, è uno dei motivi per cui ora la “sproporzione di forze” non consente risultati significativi, ma ce ne sono altri forse più importanti: la sfiducia verso le singole evasioni, la struttura delle città e delle campagne, che non consente facilmente la latitanza, la programmazione genetica delle specie da allevamento, il controllo capillare sul territorio da parte delle autorità al fine di riportare alla norma tutto ciò che esce dai “binari” (questa normalizzazione si traduce soltanto, per molt* di noi umani, in una pressione ad essere conformisti, talvolta invece è fonte di discriminazione o di grandi sofferenze – penso ai soggetti la cui sessualità deve essere invisibilizzata dal sistema, coloro che non “esistono” fino in fondo per la società – e per un animale fuggito dal camion che lo portava al mattatoio significa letteralmente essere riportato sul patibolo). In generale, è certamente la solidarietà umana che può fare la differenza, il fatto che ci sia qualcun* disposto a sostenere attivamente un ribelle, a schierarsi. Ma non sempre è necessario: nonostante questa sproporzione di forze, mentre scrivo queste righe la corrida a Madrid è stata sospesa per “mancanza di toreri”, perchè erano stati tutti incornati dai tori…
Tutto questo non significa che il movimento dovrebbe smettere di fare quello che fa. Ogni iniziativa umana ha comunque una sua logica, che è oggetto di dibattito, ma che dovrebbe essere pensata prima di tutto come sostegno a questi individui ribelli, anche quelli che, evidentemente, vorrebbero ribellarsi ma sono sono stati privati della possibilità concreta di farlo, o persino del desiderio di farlo.
La seconda domanda che ponete è molto più difficile. Che cosa c’entriamo noi? Per chi era antispecista prima che si parlasse di resistenza animale, diciamo così, non è facile rispondere. Andrebbe chiesto, piuttosto, alla ragazza che ha incontrato una mucca fuggita dal suo allevamento cercando di attraversare lo Stretto di Messina a nuoto. Questa ragazza ha incontrato Teresa, la mucca, si è schierata dalla sua parte – non era animalista, nè vegetariana – e ha fatto in modo che non venisse abbattuta, per poi trovarle una collocazione dignitosa. Oppure andrebbe chiesto a una volontaria dell’Animal Care and Control di Manhattan che, dopo aver conosciuto la mucca evasa Maxine, ha deciso di diventare vegetariana. Insomma, è evidente che la cosa può toccarci. Forse per il semplice fatto che, al di là di tanti discorsi scientifici sulla sofferenza animale o di tanti argomenti filosofici contro lo sfruttamento, sono i diretti e le dirette interessate a dirci molto chiaramente che non desiderano essere uccisi.

10) Il caso dell’orsa Daniza ha mobilitato un gran numero di persone. Insomma si è sentito con chiarezza che la volontà popolare era chiaramente schierata per la libertà e la solidarietà alla fuggitiva, alla resistente. E questo è secondo noi un ottimo segnale. Poi, però, soprattutto dopo la sua uccisione, si sono scatenate facili generalizzazioni utili, più che altro, a sfogare la rabbia della nostra impotenza. Perché abbiamo fallito? E come comportarsi quando non si riesce a sostenere i fuggitivi, le resistenti?

Sì, Daniza è stata capace di mobilitare un gran numero di persone. Certamente, ha contato la sua determinazione a non farsi catturare, ma anche altri fattori: il suo essere madre, la sua appartenenza a una specie che, anche se in questo caso è vista come pericolosa, condensa tutta una serie di connotazioni simboliche positive nella nostra cultura, e altro ancora. Non dimentichiamo che il caso Daniza ha mobilitato anche la “fazione” opposta, cioè un certo antianimalismo, diciamo, che possiamo ricondurre a dei meccanismi che abbiamo visto scattare in una parte della popolazione trentina: difesa della propria specificità culturale, dei propri interessi turistici e commerciali, delle decisioni delle “proprie” istituzioni locali, diffidenza verso i valori un po’ sciovinisti degli animalisti di città, e così via. Non ha aiutato, certamente, la modalità di protesta di alcuni gruppi che si distinguono spesso per un mix di tendenze che qui si sono mostrate molto chiaramente: l’aggregazione sulla base della rabbia repressa, del desiderio di “sfogarsi”; le modalità di contrapposizione quasi da tifo calcistico, che per inciso, più che far esplodere la rabbia legittima di chi vede un’ingiustizia, la incanalano in una sua spettacolarizzazione (non a caso il riferimento agli ultrà da stadio viene spontaneo); il forcaiolismo che concentra tutta l’attenzione sulla “punizione esemplare”, riproducendo quindi specularmente il forcaiolismo degli stessi rappresentanti istituzionali che hanno visto in Daniza un ottimo capro espiatorio; l’allergia all’analisi, anche a livello delle strategie da adottare; la facilità alla generalizzazione con cui, in questo caso, hanno diffuso una rabbia che includeva tutti “i trentini”. Tali elementi, dato che questi gruppi in questo caso sono stati più visibili nella protesta, hanno certamente portato a una contrapposizione identitaria fra un’intera regione e un vasto movimento di opinione, quello dei solidali con l’orsa fuggiasca. Questo (anche) perchè porsi in modo identitario rafforza sempre l’identitarismo di segno opposto, in un circolo vizioso. E’ davvero un problema di linguaggio e di interrogarsi su cosa vogliamo, su come vorremmo condurre le lotte. Non si tratta di criticare l’occupazione di una sede istituzionale (la provincia), perchè questo accade da sempre in ogni ambito di protesta, ed è un bene che inizi ad accadere anche in questi casi. L’insoddisfazione di certa parte di “movimento” per come sono andate le cose in questa vicenda credo non colga ancora nel segno. Alcuni, presi sempre dall’ansia del “partito unico”, hanno denunciato la “mancanza di unità”, il fatto che i gruppi non si coordinino e non ci sia una prassi comune stabilita a priori (di solito, intendono che dovrebbe essere la prassi che hanno stabilito loro…). Anche se un maggior dialogo fra “anime” del movimento servirebbe a intraprendere azioni concertate, non c’è nulla di male nel fatto che vi siano anime diverse, e non possiamo avere la pretesa di controllare il modo in cui “gli animalisti” si presentano all’opinione pubblica. Questa pretesa è decisamente identitaria! Certo, possiamo criticare alcuni messaggi che vengono fatti circolare, come lo slogan “trentini assassini”. Io denuncio apertamente questo slogan perchè in effetti in qualche modo mi chiama in causa, proprio perchè anche io mi sono schierato con Daniza, ma non vorrei neanche che qualcuno prendesse parola per “gli antispecisti”, perchè non voglio essere rappresentato. Quello accade, in sostanza, è che un passante qualsiasi, che legge i giornali e guarda la TV, mi può fermare e dire “tu sei un animalista! Tu e i tuoi compagni siete dei fascisti perchè state insultando e aggredendo tutti i trentini!”. Chi sostiene che dovremmo dare un’immagine migliore pensa che dovremmo lavorare su questa immagine degli “animalisti”, in modo che io possa dire “no, guarda, gli animalisti non sono così”. Io invece penso che al passante vorrei rispondere: “io non sono fascista, e neanche qualcosa di simile, non ce l’ho con i trentini e non mi importa molto di quello che pensi tu degli animalisti. Ora, per favore, parliamo di Daniza”.
Altri gruppi hanno invece opposto a queste derive a destra una critica della violenza, come se fosse ovvio che la lotta antispecista può essere condotta soltanto in modo non-violento, quindi rivolgendosi alle autorità statali, chiedendo di essere ricevuti, facendo leva su argomentazioni razionali come i pareri degli etologi, e ricevendo promesse ridicole puntalmente disattese. In questo vi è certamente una grossa dose di ingenuità (ma, del resto, viviamo in un paese in cui il leader della FIOM si è reso conto, 13 anni dopo le violenze poliziesche di Genova, che nel nostro paese il dissenso viene affrontato con i manganelli, scandalizzandosi come se in questi anni avesse vissuto su Marte). Ma c’è anche, secondo me, una critica a questi gruppi che non coglie i vari aspetti che ho citato sopra, limitandosi a riprodurre il leit motiv dei “provocatori” cui il movimento dovrebbe rispondere con la propria faccia rispettabile e rassicurante, quella che poi in effetti viene gestita senza alcuna difficoltà dalle istituzioni schierate a difesa dello sfruttamento animale e della gestione antropocentrica dello spazio. Vi sono stati poi gruppi che si sono limitati a “fare dell’altro”, come Essere Animali che ne ha approfittato per dare risalto al trattamento proposto per Daniza, alla reclusione in un mega-recinto che si stava preparando per lei. Questo mi sembra il massimo che si potesse fare di intelligente, al momento, insieme a una critica sensata delle modalità di protesta che riteniamo controproducenti.

(Intervista a cura di Troglodita Tribe)

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