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Egon e Michela a I Dieci Comandamenti. Una testimonianza intensa

Condividiamo con piacere l’articolo di Marta Grasso, Psicologa specializzata in Psicologia Forense

Il 14 marzo 2014, in seconda serata, è andata in onda una puntata de I Dieci Comandamenti dedicata alla storia di Egon e Michela.

Dopo anni di servizi televisivi utili perlopiù a legittimare stereotipi e potenziare pregiudizi, con sempre maggiore frequenza i media stanno dedicando uno spazio alle storie di persone transessuali, raccontate da queste in prima persona davanti ad una telecamera.

La storia  Egon e Michela è particolarmente interessante ed efficace per la moltitudine di aspetti che chiama in causa, dalla genitorialità transessuale alla problematica lavorativa, passando per la sessualità, il rapporto con il corpo, l’inadeguatezza della normativa vigente, lo stigma sociale.

Mi chiamo Egon, sono un uomo transessuale di 42 anni e sono genitore di un bambino e di una bambina

GENITORIALITA’ TRANSESSUALE
La transizione di Egon, come si intuisce, comincia in età decisamente adulta, dopo il matrimonio e la maternità, dopo anni di negazione della propria identità e di “infelicità“.

A 39 anni, Egon decide di intraprendere l’unica strada che sente possibile, quella della transizione da femmina a maschio, con un bagaglio di enorme paura, non tanto per sé quanto per i propri figli: si chiede come reagiranno i bambini nel vedere la propria mamma che diventa un uomo, che si trasforma.

Una delle prime volte che mi sono cambiato davanti ai bambini, Pietro mi chiede <<Da quant’è che ti senti così, che ti senti maschio?>> e io gli ho detto <<Io alla tua età non ero contento di essere donna, di essere una bambina>> e lui mi guarda e mi dice <<Mamma, capisco bene come ti sentivi>>

Lo stereotipo vuole che la famiglia sia composta da uomo e donna e bambini e che una mamma sia femmina e che un papà sia maschio e che la violazione di una di queste regole sociali possa costituire un rischio per i minori.
Tuttavia i dati disponibili in letteratura mettono in evidenza come la transessualità non sia di per sé un fattore di rischio evolutivo: ciò che sembra invece incidere negativamente sullo sviluppo del minore sono le eventuali complicanze familiari che la transizione può portare con sé. Un esempio è la conflittualità coniugale – rinomatamente rischiosa per i figli di genitori in via di separazione – che si sviluppa laddove il nucleo familiare non riesca a fare fronte al cambiamento in atto, a ridefinire i ruoli e a stabilire un nuovo equilibrio.[1]
La genitorialità non ha a che vedere direttamente con il genere, bensì con l’espletamento della funzione genitoriale[2] su cui la transizione può incidere negativamente, come no, nella misura in cui può incidere un lutto, la perdita del lavoro, o un qualsiasi altro evento significativo che generi uno stato di pesante stress e malessere nel genitore. L’iter di transizione mette a dura prova l’individuo – fisicamente, per via delle terapie ormonali, e psicologicamente, per tutte le difficoltà che può generare a livello lavorativo, familiare e sociale – e accade che possa incidere sulla modalità genitoriale, ad esempio rendendo il genitore meno presente e disponibile, più ansioso e meno paziente.
Un ulteriore elemento di rischio è legato alla mancata chiarezza – se non alla totale assenza di informazioni – delle comunicazioni che i genitori danno ai figli rispetto alla transizione: sarebbe importante che il genitore in transizione desse una chiara e comprensibile spiegazione al figlio, con il supporto dell’altro genitore o di un membro della famiglia significativo per il minore, così che questi abbia un supporto emotivo mentre si interfaccia con i cambiamenti in atto.

DAL CORPO CHE INTRAPPOLA AL CORPO CHE LIMITA
“Avevo degli attacchi d’ansia in cui faticavo a respirare. [Era come se il mio corpo] mi costringesse, come se fossi in un involucro più stretto di quanto io fossi grande”

La transessualità nell’immaginario comune è legata alla retorica dell’anima intrappolata nel corpo sbagliato, presente anche nei manuali diagnostici.
Michela introduce un concetto ben diverso, quello del corpo che limita l’espressione di sé, di un sé che non sta solo dentro e che non è separabile dal fuori.

Perché il corpo è così importante per l’espressione della propria identità di genere?
Il corpo è ciò attraverso cui stiamo al mondo: non è tanto qualcosa che abbiamo, il corpo è quello che siamo. Ciò è particolarmente “vero” per quanto riguarda l’identità sessuale, poiché maschi e femmine si distinguono esclusivamente per degli attributi – primari, come i genitali, e secondari, come la peluria o il seno – meramente fisici.
L’identità sessuale è strettamente legata all’identità di genere percepita socialmente, perché è con il corpo che entriamo in relazione con gli altri e ciò che questi vedono di noi genera la nostra immagine sociale.
Potremmo dire che non esiste identità senza un corpo.

Così come non si può scindere il cosa l’Altro vede di noi da come l’Altro ci vede, non si può separare l’identità sociale da quella personale, quello che l’Altro vede da quello che io vedo di me, come l’Altro mi definisce da come io mi definisco.
Potremmo dire che non esiste identità senza lo sguardo dell’Altro e che non si può essere “io” senza essere contemporaneamente un “me” e un “tu”.


Michela rende molto bene il concetto nel raccontare quella che per lei ha costituito il passaggio fondamentale nel percorso di transizione, la rimozione della barba, che le ha consentito “riacquistare la propria identità femminile“.

“Finché hai la barba sul volto nessuno ti identifica come donna, […] non ti fa vivere socialmente tranquilla. […] [Quando mi accarezzo il viso e lo sento liscio] lo sento mio, sento quello che doveva essere, mi sento perfettamente in sintonia ora con il mio corpo”.

Se per Michela è stata la perdita della peluria sul volto, il passaggio fondamentale per Egon è stato la rimozione del seno: un cambiamento agognato ma non per questo meno sofferto.

“Il pensiero che da un certo momento tu farai qualcosa e il tuo corpo cambierà – e tu non sai come – è una cosa che fa anche paura”

La peluria e il seno fanno parte dei cosiddetti “caratteri sessuali secondari”: questi sono aspetti corporei immediatamente visibili e pertanto consentono di categorizzare immediatamente una persona come appartenente al genere femminile o maschile. Per Egon e Michela, l’adeguamento di questi elementi al proprio genere di elezione, tramite la terapia ormonale e la mastectomia, ha costituito il passaggio fondamentale per la riappropriazione della propria identità proprio per il carattere “pubblico” di questi caratteri sessuali: non esiste identità maschile o femminile senza un Altro che, guardandoci, ce la riconosca.
Diverso invece è il discorso relativo ai cosiddetti “caratteri sessuali primari”, ovverosia gli apparati genitali.

L’APPARATO GENITALE FRA IDENTITA’, SESSUALITA’ E BUROCRAZIA
La legislazione italiana[3] impone che, per la rettifica dei dati anagrafici – ovvero per avere dei documenti congrui al proprio aspetto -, la persona transessuale debba sottoporsi ad interventi chirurgici demolitivi del proprio apparato genitale, al fine di non poter più procreare.
L’immaginario comune, d’altro canto, non contempla la possibilità che esistano donne con il pene e uomini con la vagina.
Ciò che pare così indispensabile – per la cultura e per lo Stato – per la definizione dell’identità di genere, non sembra esserlo altrettanto per Egon e Michela.

“Non è una cosa che sento mia, è una cosa che dovrei fare solo per una questione burocratica”

“Penso che quello che noi raggiungiamo è l’equilibrio, non deve essere un corpo ad imitazione dell’altro sesso”

Perché il corpo – mezzo di espressione di sé, delle proprie peculiarità, della propria individualità – sia accettato e riconosciuto socialmente deve perdere quelle peculiarità e conformarsi ai dettami culturali. Una persona transessuale, che negli anni si riappropri della propria identità attraverso l’adeguamento dei caratteri sessuali secondari e che a tutti gli effetti viva socialmente come membro del genere di elezione, non potrà avere accesso a dei documenti conformi se non si sottopone ad interventi chirurgici.

Molte persone transessuali hanno il desiderio di modificare i propri organi genitali, tante altre – come Egon e Michela – invece no. Per loro la prospettiva della demolizione dei caratteri sessuali primari appare come una vera e propria “mutilazione” e non è auspicabile per diversi motivi. Fra i vari, la possibilità di avere una sessualità attiva e soddisfacente: citando Egon, “Se avessi la certezza che mi sottopongo ad una operazione – anche invasiva, anche dolorosa – e poi ho un pene perfettamente funzionante, come un uomo biologico, la farei. Ma siccome non è questo il risultato, no, rischio di distruggere la mia capacità di avere una relazione sessuale, nel senso di provare piacere, per avere qualcosa di esteticamente non idoneo, che non funziona, che magari va in necrosi e casca e devi ri-operarti…”.

L’assurdità di fondo sta nel fatto che Egon e Michela, dopo aver per anni cercato di “riappropriarsi” del proprio corpo, dovrebbero ora rinunciare proprio a quel corpo per portare a compimento il loro percorso. Non solo, la loro qualità della vita peggiorerebbe perché l’intervento metterebbe a rischio una delle sfere più importanti dell’essere umano: quella dell’intimità, ovvero della sessualità.
Può suonare anomalo parlare di sessualità senza i riferimenti anatomici classici, tuttavia l’espressione dell’erotismo e dell’affettività attraverso l’intimità è possibile non solo attraverso la congiunzione di un pene e una vagina.

“La società, la cultura, ha un’idea del sesso che deve essere per forza il pene che va dentro la vagina. Tutto il resto è perverso, è infantile, non è la vera relazione sessuale e non viene accettata. In realtà è un’idea che qualcuno ha deciso ma tutto può essere sesso ed erotizzato, dal piede, il ginocchio, il braccio, uno sfregamento, il bacio…”

La sessualità non ha difatti a che fare con la procreazione – per cui è necessario un pene, una vagina e l’atto della penetrazione – ma piuttosto con la fantasia, con la passione, con l’erotismo, con la scoperta del proprio e dell’altrui corpo, con la scoperta del proprio e dell’altrui piacere.[4]


LAVORO E QUALITA’ DELLA VITA
Michela ha studiato all’università per diventare veterinaria. Ad oggi lavora pochi giorni al mese come promoter di alimenti per animali, è tutto quello che è riuscita ad ottenere, perché – come spiega – essere transessuale vuol dire troppo spesso essere discriminate/i.

“Di solito quando si cerca lavoro bisogna farlo attraverso un curriculum, ovviamente mettendoci il nome anagrafico difficilmente qualcuno di richiama. Così ho cominciato ad omettere che ero transessuale, quindi a mettere solo il mio nome femminile con la mia foto attuale, e in questo modo qualche colloquio l’ho fatto, però spesso anche questi colloqui vanno a finire male, nessuno richiama”.

Transizionare non implica solo una modifica dei propri caratteri sessuali o della propria immagine sociale: il transito è a tutto tondo. E’ un transito verso nuovi equilibri di vita, di relazione, familiari. E’ un salto nel vuoto dall’esito imprevedibile, che certamente fa molta paura e può causare molto dolore.

“Quando inizi un percorso di transizione non sai dove approderai, non sai se le persone che ti conoscevano prima resteranno amici, se resterà quell’affetto familiare che prima c’era, parenti che non ti vogliono più parlare. E’ una cosa che devi mettere in preventivo”

Spesso, come racconta Michela, le famiglie reagiscono alla transizione con l’espulsione del parente dal proprio nucleo. Altre volte lo accettano e sono di sostegno, altre ancora si dividono al proprio interno, come è accaduto a Egon.

IL RUOLO DELLA FAMIGLIA DI ORIGINE
Quello che accomuna tutte le situazioni – sebbene in modalità e misure diverse – è la difficoltà a comprendere, prima che ad accettare e sostenere.

“Mi è crollato il mondo addosso, ho pensato speriamo che muoia domani mattina, piangevamo io e mio marito giorno e notte, da catastrofe”

Con parole molto forti, la signora Anna Carla, mamma di Egon, descrive il proprio vissuto di spaesamento, lo shock provato di fronte all’annuncio della transizione, il senso di vaga colpevolezza che ha provato nel considerare che quella figlia non sarebbe più stata la stessa.
Ansia, preoccupazione, difficoltà a comprendere ciò che stava portando Egon ad intraprendere il percorso di transizione, per lungo tempo. Poi l’amore di Anna Carla ha colmato il vuoto di comprensione – che si intuisce ancora aperto – permettendole di sostenere Egon e di ritrovare la propria serenità, prima di suo marito.
“Ora comincia a parlargli appena appena, se no era invisibile. Penso che starebbe meglio anche lui, perché io poi sono stata meglio”

E’ sempre auspicabile che le famiglie di origine sostengano la persona transessuale soprattutto perché, come si è detto, ella va spesso incontro a numerosi episodi di discriminazione ed esclusione in più ambiti di vita. Tuttavia, come Anna Carla sottolinea, “è facile dirlo quando sono gli altri, poi bisogna passarci per queste cose per capire come sono dure”.
La durezza di questa esperienza, per la famiglia, è sicuramente in larga parte legata alla necessità di ri-configurare la/il figlia/o dentro al nuovo genere, accettando di “perdere” per sempre quella/o figlia/o che si è visto nascere e crescere; tuttavia anche la paura dello stigma sociale ha il suo peso nel generare paura e difficoltà di accettazione.
“E poi ho detto: è mia figlia e se non l’aiuto io chi l’aiuta? E poi ho cominciato a dirlo ai miei amici più intimi e ho visto che tutti cominciavano a dire <<ma lo sai che c’è mia cugina, la figlia del dottore…>>. Mi si è aperto un mondo”.

RESPONSABILITA’ E RISPETTO 
Lo stigma sociale ha un forte peso nell’aggravare le difficoltà e la pesantezza di un percorso – personale e familiare – già di per sé complesso e non sempre facile. E se in tal senso costituisce un problema, la sua soluzione sta nel concetto di responsabilità, quella responsabilità che ognuna/o di noi dovrebbe avere nel rispettare – anche laddove non si riesca a comprendere – l’esperienza transessuale. Rispettarne il dolore, la fatica, il coraggio.
L’esperienza transessuale può sembrare molto lontana a chi non l’abbia vissuta direttamente o indirettamente, a chi l’abbia eventualmente solo sentita nominare attraverso i mass media. Tuttavia, siamo parte di un unico genere, quello umano, e ciò significa che abbiamo un bagaglio di esperienze comuni, proprio quelle che umani ci rendono.
Il transito – come scoperta e riconquista di sé nonché come passaggio da un ruolo sociale ad un altro – fa parte di quelle esperienze che ci accomunano in quanto esseri umani: si transita dal ruolo di uomo a quello di donna (o viceversa), si transita dal ruolo di nubile a quello di coniugata (o viceversa), dal ruolo di figlio a quello di genitore, dal ruolo di imprenditrice a quello di operatrice di call centre (o viceversa).
Certamente ogni transito ha le proprie peculiarità, in termini di vissuti o di conseguenze; ciò che però non si può negare è che nessuna/o è esente dal transitare nel corso della vita e che in quei momenti di cambiamento tutte/i avremmo bisogno e troveremmo sollievo nel sentirci appoggiati e sostenuti, nel vedere rispettati i nostri sentimenti e compresa la nostra fatica.

Ho conosciuto Michela diversi anni fa, all’inizio della sua transizione. Mi colpirono i suoi occhi limpidi e quella timidezza che la rendeva un essere umano tanto delicato.

 

Sentirla raccontare la sua storia oggi mi ha profondamente commosso e ho sentito forte un sentimento molto simile all’orgoglio per questa piccola grande donna che, attraversando tante tempeste, giunge ogni giorno sempre più vicina a se stessa.

 

Questo post vuole essere un regalo per lei, per ricambiare quello che lei ha donato di sé a me e a chi ha ascoltato la sua storia.

 

 

 

 

 

 

 

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[1] Ruspini, Inghilleri (a cura di), 2008, Transessualità e Scienze Sociali, Liguori ed.
[2] Per una definizione delle competenze genitoriali, cliccare qui.
[3] Legge 14 aprile 1982, n. 164. Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso, visionabile qui.
[4] Liggio, 2012, Trattato moderno di psicopatologia della sessualità, Libreria Universitaria ed.

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