Soggetti politici e diritti: lo status di chi non deve esistere
Comparazione tra la normativa sugli animali da reddito e la legge sulla riassegnazione sessuale in Italia
di Egon Botteghi su antispecismo.net, 7 Settembre 2012
Definizione animali da reddito
Volendo iniziare questo mio intervento con una definizione precisa ed ufficiale di “animale da reddito”, accendo il pc e vado su internet, il grande oracolo onnisciente, convinto che mi si srotoli davanti un mondo di spunti interessanti.
Invece, con mia somma sorpresa, il motore di ricerca rimanda solo ad annunci commerciali, normative per il settore agricolo, consigli e definizioni sull’allevamento di singole specie.
Fin dall’inizio la presenza di questi animali è negata, chi ne vuole parlare per farla riemergere è lasciato solo nella sua bizzarra impresa e deve costruire il discorso a partire dalle proprie esperienze di vita a contatto con questa categoria di animali non umani.
Trovo una volta di più la conferma del paradosso che gli unici che possono parlare con cognizione di causa degli animali da reddito sono quelle persone che non li considerano tali.
Allora ritorno alla definizione che ho coniato vivendo accanto agli animali del rifugio “Ippoasi”: per animali da reddito si intendono tutte quelle specie di animali che vengono allevate ad uso e consumo della nostra specie.
Animali a cui, attraverso appunto i moderni standard di allevamento, viene negata qualsiasi autodeterminazione, a cui viene controllato tutto, il modo in cui nasce, cresce, si muove e muore.
Gli animali da reddito in Italia sono i bovini, i suini, gli ovini, i caprini, gli avicoli, i conigli e gli equini ( quest’ultimi in una strana ed emblematica posizione a metà tra l’animale da reddito ed il pet).
Ciò che caratterizza questi animali è proprio il fatto che nascono per essere sfruttati, “sfruttamento” è la parola chiave. Essi vengono visti solo come prodotti, non come esseri viventi, la loro vita è totalmente subordinata al nostro consumo, non sono soggetti ma oggetti, sono carne, latte, uova, spettacolo, lavoro, pellame.
Il loro allevamento è caratterizzato da una serie di norme e di procedure burocratiche, controllate dalla sezione veterinaria delle asl, che vigilano sulla sicurezza, per la salute umana, di questi prodotti.
Norme legislative sugli animali da reddito
Chi decide di salvare un animale da reddito, ed ha la possibilità materiale di spazio e denaro per mantenerlo, si imbatte in una bella sorpresa: dovrà diventare allevatore e cominciare a cimentarsi con tutta la normativa che a ciò consegue.
Per le asl infatti, che tu abbia una capretta in giardino salvata dal macello o che tu abbia un gregge di mille “capi” non fa differenza, la capretta è infatti un animale da reddito e tale rimarrà finchè avrà vita, e quindi dovrà essere controllata perchè non rappresenti un potenziale pericolo per la catena alimentare dell’essere umano.
Quindi si dovrà andare al servizio veterinario delle asl di competenza ed aprire un “codice stalla”, un numero, cioè, che caratterizzerà la tua “azienda”.
Poi si dovrà prendere e far vidimare un registro di carico-scarico per ogni specie presente, dove registrare gli animali e tutti gli spostamenti che questi eventualmente faranno.
Gli animali da reddito, infatti, non hanno un nome, ma hanno anche loro un codice numerico, di solito un orecchino, ma può essere anche un chip sotto pelle o nello stomaco, che gli deve essere applicato alla nascita e che lo seguirà fino alla morte, che di norma avviene al macello.
Gli animali da macello si possono spostare solo tra luoghi che abbiano il codice stalla, su mezzi appositi, ed il veterinario deve compilare il foglio di spostamento, dove viene indicato il numero dell’animale, la specie di appartenenza, il luogo di partenza e di arrivo.
Nei normali allevamenti gli animali si spostano, e vengono quindi scaricati dal registro, o in caso di vendita ad altri allevatori, o, molto più spesso, perchè condotti al mattatoio. Quindi si tratta di viaggi senza ritorno.
Nel caso invece di rifugi, i registri vengono di solito caricati e basta, perchè l’animale vi rimane a vita.
Quando un animale di un rifugio deve spostarsi, per esempio per problemi di salute deve raggiungere una clinica, bisogna fare due fogli di viaggio, uno per l’andata ed uno per il ritorno, con grande meraviglia del veterinario che stenta a capire che l’animale deve tornare a “casa” e con grande dispendio di burocrazia.
I rapporti con i veterinari della asl sono spesso, infatti, assai delicati, avendo quest’ultimi un grande potere sulla vita o la morte degli animali da reddito, in virtù delle norme su cui devono vigilare, norme che vedono questi animali come prodotti ma che devono essere scrupolosamente rispettate se si vuole “detenere” questi animali e quindi salvarli.
Spesso si assistono a delle vere e proprie scenette quando un “non-allevatore” si reca al servizio veterinario delle asl ad aprire un registro di carico-scarico e cerca di spiegare che quell’animale non è ne da carne, ne da produzione, ne da autoconsumo ma da affezione…insomma non esiste nella mente del professionista che ha di fronte e che magari cerca allora di convincerlo che è fuori strada e che è nell’ordine delle cose che quell’animale venga macellato.
La cosa più importante è comunque che l’animale sia registrato, cioè abbia il suo codice numerico, e che venga controllato periodicamente, attraverso prelievi biologici, per monitorare alcune malattie potenzialmente pericolose per gli allevamenti ( ad esempio anemia equina, borocillosi per i bovini, etc…).
Insomma l’assunto granitico per la situazione italiana è: un animale appartenente a certe specie è un animale da reddito, e tale rimarrà per tutta la sua esistenza e permanenza sul nostro territorio, e dove c’è un animale da reddito c’è un allevamento.
Cosa comporta
Il posizionamento di questi animali nella categoria immutabile di animali da reddito, quindi da sfruttamento e da macello, pone problemi serissimi per la vita di questi esseri e per le persone che decidono di aiutarli, cercando di strapparli ad un destino che sembra già scritto, anzi inscritto nell’ordine naturale delle cose.
Innanzitutto c’è la questione dell’obbligatorietà del codice numerico che queste creature devono poter esibire sin dalla nascita per aver diritto ad una qualche forma di esistenza.
Nel nostro paese, infatti, un animale da reddito che non sia stato “marchiato” non può esistere, non può calpestare l’italico suolo, e non esiste nessun luogo di espatrio se non la morte, l’abbattimento e il conseguente smaltimento come oggetto pericoloso.
E se per alcune specie i veterinari possono chiudere un occhio e, dopo una consistente ramanzina su come funzionano le cose, accettare di regolarizzare un animale adulto, su altre sono inflessibili, come nel caso dei bovini.
La paura di quel mostro che la stoltezza stessa del moderno allevamento di cui sono a guardia ha creato, la mucca pazza, giustifica infatti un solo imperativo: sparare a vista sulle mucche non portatrici di orecchino di riconoscimento, come di fatto è avvenuto recentemente in alcune parti d’Italia in casi di bovini vacanti.
Questo comporta, inoltre, la non “salvabilità” di questi animali trovati senza riconoscimento, che non potendo essere registrati, non possono entrare nei rifugi o in qualunque altro luogo e devono essere tenuti nascosti come clandestini.
Altra grande stonatura di questo stato di cose è che appunto i rifugi sono equiparati agli allevamenti, e che quindi le persone che vi lavorano, spesso a titolo di volontariato, devono invece essere immersi nello stesso sistema che stanno combattendo.
Legalmente il rifugio x che salva un numero x di bovini è un allevamento tanto quanto l’allevamento y che macella ogni anno un numero y di bovini, con lauti guadagni.
I volontari dei rifugi devono diventare esperti di normative sugli allevamenti, e devono stare ben attenti a non sbagliare, destreggiandosi tra norme che cambiano continuamente, pena multe ed il sequestro stesso degli animali ( perchè è un fatto che i rifugi sono controllati, molto di più che gli allevamenti intensivi, come dimostrano le investigazioni che testimoniano infrazioni impensabili), devono perdere intere mattinate negli uffici delle asl, pagare i veterinari per i prelievi e le varie scartoffie ed aiutarli quando vengono a disturbare gli animali.
Sì, perchè la mucca che vive tutto l’anno nella tranquilla libertà di un rifugio, deve essere periodicamente catturata e legata, stile rodeo, per permettere al veterinario di turno di fare tutte le operazioni necessarie.
Spesso, animali che vivono ormai le loro esistenze in un sereno rapporto con gli esseri umani, vivono ore di terrore, rincorsi da persone che inspiegabilmente gli vogliono fare del male.
Io stesso ho rischiato di avere la testa sfondata da una asino che ama giocare con i bambini, ma che diventa furibondo quando il veterinario viene a prelevargli il sangue, tanto da essere con disprezzo definito un animale pericoloso.
Macchia ed Ercolino, una storia esemplare
Per addentrarci meglio nelle implicazione che, a livello pratico, questa normativa reca con sé, prendiamo la storia di due animali che l’associazione “fattoria della pace Ippoasi”, di cui faccio parte, sta cercando di salvare dalla macellazione.
Macchia è una bovina che, vivendo in un contesto particolare, non è stata registrata da chi la “detiene”, ed è stata ingravidata per poterla mungere ed ottenere del latte. É nato così suo figlio Ercolino, a sua volta non registrato. L’associazione di cui sopra è stata contattata da una persona, vegan, che vive nella comunità dove risiedono anche i due animali, nel momento in cui era stato deciso di macellarli. La comunità si era detta disponibile a non ucciderli purché fosse alleggerita dal loro mantenimento ed i bovini trasferiti in altro luogo. Insomma, era disponibile a “regalarli”.
L’associazione ha diramato subito tra i suoi contatti un appello, in cui si spiegava che era possibile salvare e portare al rifugio le due creature, purché si trovasse qualcuno disposto a farsi carico della parte economica del mantenimento ( l’associazione ci avrebbe messo il terreno ed il lavoro di cura quotidiana). La risposta non si è fatta attendere e si sono fatte avanti persone disposte a pagare le spese mensili di madre e figlio.
Quindi nessun problema, si poteva andare a prendere i due bovini, portarli al rifugio e farli vivere in pace la loro intera esistenza. Dunque tutto è bene quel che finisce bene! Ed invece no, perchè Macchia ed Ercolino non hanno il loro codice numerico, che deve essere applicato entro tre giorni dalla nascita, e quindi non possono essere spostati, anzi, la loro esistenza ed ubicazione deve essere tenuta nascosta per la loro stessa sopravvivenza.
Tutte le ASL Toscane a cui si è infatti rivolta l’Ippoasi, nel tentativo di regolarizzarli per poterli portare al rifugio, si sono dimostrate implacabili: nessuno si prende la responsabilità di registrare i due bovini, ed anzi, se venissero trovati, sarebbero abbattuti.
Intanto, la comunità dove vivono, fa pressione perché siano portati via, e la minaccia della macellazione è come una spada di Damocle sulla testa di questi due esseri, che se non fosse per le normative sugli animali da reddito, sarebbero già in salvo in un rifugio.
Al momento si è riusciti a trovare un accordo, che però deve essere rivisto proprio in questi giorni, per cui Macchia ed Ercolino possono ancora stare dove sono nati ma vengono mantenuti dall’associazione con i soldi erogati dalle persone che li hanno adottati a distanza.
Essendoci però una sorta di ultimatum, per cui a Settembre o vengono portate via o saranno macellati, si tenterà il tutto per tutto, contattando anche una asl Lombarda dove c’è stato un precedente del genere.
Sicuramente, questa storia come tante analoghe, ha fatto maturare nelle persone che lavorano nei rifugi la consapevolezza che i tempi possono essere pronti per un lavoro, certo lungo, difficile ed estremamente ambizioso, per un riconoscimento giuridico dei rifugi, come avviene in altri paesi.
Questo comporterebbe, come corollario, che gli animali ospitati in questi luoghi, non siano più considerati animali da reddito, rendendo tutta la gestione molto più semplice e più congrua alla realtà dei fatti.
La situazione in altri paesi
Nei paesi anglosassoni, dove i rifugi per animali da reddito sono una realtà assai numerosa e vasta, anche soltanto la denominazione riporta a tutt’altro stato di cose. Questi luoghi, infatti, dove “semplici” e “comuni” animali da macello vengono salvati ed ospitati, sono chiamati “santuari”, nome che nella nostra lingua riporta a situazioni molto più auliche, degne di animali considerati, magari per ragioni protezionistiche, più importanti ( ad esempio i santuari per cetacei).
In questi paesi i santuari non sono quindi equiparati agli allevamenti, non devono sottoporsi alla stessa burocrazia delle persone che su questi animali ci lucrano, ed il corollario più importante è che gli animali ivi ospitati non sono più considerati da reddito.
Nel nostro paese invece, come si è visto, partendo dal presupposto che qualunque animale da reddito potrà un giorno finire al macello, non c’è nessun tipo di affrancamento dalle normative vigenti sugli allevamenti.
I santuari stranieri godono di sovvenzioni ed anche di un ampio sostegno presso le loro comunità, che si esplicano in una notevole disponibilità di volontariato da parte della gente e di un ampio giro di donazioni.
In italia, invece, è ancora molto difficile trovare persone che vogliono occuparsi di questi animali e di solito il “giro” comprende, nella quasi totalità, persone già approdate al veganesimo (normalmente è più facile avere empatia per cani e gatti, più difficile per animali che si mangiano, e quindi sacrificarsi e lavorare per un animale un cui simile ti troverai magari a mangiare a pranzo, senza contare l’estraneità ed il timore che spesso questi animali suscitano nelle persone, per niente abituate a vederli).
Cosa fare: la “rete italiana rifugi antispecisti”
Il 4 Marzo di quest’anno, a Firenze, è nata la “rete italiana rifugi antispecisti”, con lo scopo di riunire tutte quelle realtà che si identificano in questa dicitura, permettendo loro, attraverso la creazione di sinergie, di fare un lavoro più ampio e di trovare anche agevolazioni nel portare avanti i loro scopi.
Per rifugio “antispecista” si intende un luogo dove tutti gli animali siano considerati degni di una vita libera da soprusi e sfruttamento, dove non si facciano distinzioni tra specie e dove si porti avanti una politica di equiparazione tra ogni essere vivente ( ad esempio un canile dove ci si prodiga per il benessere del così detto “migliore amico dell’uomo” ma dove si considerano gli altri animali un prodotto per i nostri piatti, non è antispecista, come non lo è un posto dove magari si aiutano gli animali ma si portano avanti ideologie razziste, sessiste o di qualsiasi genere di odio intraspecifico).
I primi obiettivi che questa rete si è data, tutti di amplissima portata, considerando anche che devono essere portati avanti da persone già oberate quotidianamente dal lavoro sul campo con gli animali, sono:
– mappature dei rifugi antispecisti di tutto il territorio italiano, il che implica fare preventivamente delle linee guida per poter identificare chi rientra in questa categoria e chi no.
– mappare qualsiasi tipo di rifugio o spazio, anche privato, dove gli animali da reddito possono essere ospitati, in modo da favorire un incontro tra la richiesta di aiuto per il salvataggio di questi animali e chi se ne può far carico
– creare un portale dove far convergere tutte queste informazioni, ed anche altre di diverso tipo, come consigli sulla gestione di ogni specie d’animale e quant’altro
– favorire l’incontro tra le associazione antispeciste che gestiscono direttamente degli animali con quelle che invece fanno un lavoro divulgativo o di specifiche campagne, in modo che queste ultime possano magari contribuire agli oneri del mantenimento del rifugio, seguendo l’idea che questi siano la terra del movimento, luoghi dove si esplicano concretamente alcune delle idee portati avanti dal “movimento antispecista”
– lavorare per un riconoscimento giuridico dei rifugi
Come si può ben vedere la mole e la portata del lavoro è amplissima, per cui è di fondamentale importanza che i rifugi e le persone che vi operano non siano lasciati soli ma che ricevano l’aiuto fisico, morale ed economico di tutti quelli che si sentono vicini a questi scopi e che si definiscono antispecisti.
Un corollario antispecista: similitudini tra le norme per gli animali da reddito e la legge per la riattribuzione del sesso in Italia.
Avendo parlato di antispecismo, non vorrei assolutamente addentrarmi nel campo minato di una sua difficile definizione, ma vorrei piuttosto mostrare, con le mie modeste capacità, come funziona, quali pratiche ed azioni politiche ne discendono.
Per farlo uso il mio stesso corpo, trovatosi ad essere, suo malgrado, crocevia di vari tipi di oppressione. Secondo me, infatti, una delle pratiche antispeciste più importanti, è quella di fare i collegamenti tra i vari tipi di ingiustizie e tentare di farne scaturire una azione politica comune.
Questa unione può avvenire portando alla luce le similitudini tra le sofferenze degli oppressi ed il modo in cui queste si esplicano, e la radice comune delle dinamiche che giustificano tali oppressioni.
La speranza è che la lotta per la liberazione animale unisca tutte le lotte di liberazione e che risvegli le coscienze a livello globale ed in maniera completa, proprio ponendo il focus sugli oppressi per antonomasia, gli animali, senza però cadere in facili semplificazioni ed in una visione di tipo avventista quasi religioso.
La mia storia personale mi colloca in questo momento della mia esistenza in una posizione in cui, come persona transessuale che si batte al fianco degli animali da reddito, ho lo sguardo su due tipi di profonde sofferenze, cioè quelle che la nostra società ed il nostro ordinamento infliggono agli animali da reddito ed alle persone transessuali, transgender ed intersex.
Situazioni che sembrano lontanissime tra loro, grazie alle analisi che l’antispecismo porta a fare, si avvicinano molto, portando alla luce i meccanismi che permettono di svilire e quindi opprimere degli individui che avrebbero invece diritto alla libertà, riducendoli cioè in categorie rigide e mostrandone la lontananza dalla buona norma , costruita ad immagine dell’individuo dominante, e vigilare perché questa norma si auto mantenga, passando anche per lo schiacciamento ed il denigramento del diverso, visto quasi rovesciamento del “come si dovrebbe essere”.
Le persone transessuali, transgender ed intersex, che non sono quindi riconducibili alla normativa binaria maschio-femmina, non vengono più riconosciute come persone, come abbiamo visto accadere per gli animali da reddito.
Nel suo difficile vagare tra i generi, il transessuale perde il suo posto nella categoria dell’esistente, diventa inimmaginabile come libera espressione della variabile umana, ma solo come cosa, come mostro, come perversione e follia.
Nello stesso ambiente antispecista bisogna stare attenti a non incappare in un facile giudizio che vede queste persone come prodotti di una aberrazione della società moderna e della tecnologia medica, piuttosto che mettersi ad ascoltare senza pregiudizi quello che queste esistenze possono dirci e di quali istanze e necessità sono portatrici.
La legge 164 del 1982, che da trent’anni regola in Italia, senza le necessarie revisioni, quello che viene definito “percorso di riattribuzione del sesso”, ha, nelle interpretazioni che di prassi i giudici le danno, molte similitudini con quanto abbiamo visto accadere per le norme sugli animali da reddito.
La legge era nata quasi come una sanatoria, per colmare il vuoto giuridico che le trans che si operavano allora all’estero ( non essendo in Italia permesso), creavano con il loro rientro nel paese.
Queste persone infatti, che lottarono strenuamente per ottenere una legge e che inscenarono anche forme di lotta molto spettacolari, vivevano nella posizione di avere dei documenti difformi all’aspetto fisico, condizione che può essere estremamente difficile, umiliante e lesiva della propria privacy.
In Italia, per arrivare al cambiamento anagrafico, e quindi ad avere documenti che corrispondano al genere di elezione, bisogna sottoporsi alla così detta riassegnazione del sesso (alle volte indicata anche come “rettificazione”), che comprende tutta una serie di step medico-chirurgici che portano poi alla operazione finale.
L’inizio di tutto è la diagnosi di DIG, “disforia di genere”, che attesti il disagio psichico della persona rispetto al suo sesso biologico, rilasciato da uno psichiatra, categoria di medici che fungono da moderni caronti, che stanno a guardia delle porte di accesso di questo percorso e che decidono chi vi entra e chi no.
La diagnosi di dig, che spesso è in fondo un autodiagnosi, prevede di solito un periodo di osservazione psichiatrica mirante ad escludere altre malattie mentali (la persona transessuale è, in pratica, un malato di mente sano) e, nel migliore dei casi, un percorso psicologico di supporto per affrontare le grandi difficoltà, sopratutto a livello sociale, a cui sarà esposta la persona durante il percorso.
Il fine, quando si riesce ad instaurare un rapporto costruttivo tra queste figure e la persona che è “costretto” a rivolgervisi, è anche quello di far arrivare il transessuale in una situazione di migliore equilibrio psichico possibile al momento della somministrazione ormonale.
Il secondo passo è infatti la tos, la terapia ormonale sostitutiva, mascolinizzante o femminilizzante a seconda dei casi, seguita da un endocrinologo, previa diagnosi di dig ed esami attestanti la condizione di salute generale della persona e la sua situazione ormonale di partenza e l’assenza di “sindromi” intersessuali.
A questo punto la persona transessuale deve rivolgersi, con il suo avvocato, al tribunale della propria città, per ottenere dal giudice la sentenza con cui potrà procedere alle operazioni chirurgiche di adeguamento, dopo cui potrà chiedere il cambiamento anagrafico (mastectomia ed isterectomia nel caso del percorso da donna a uomo, vaginoplastica nel caso inverso).
Come si vede non c’è un autodeterminazione sul proprio corpo, ed il percorso burocratico è spesso lento e difficile.
Ottenuta la sentenza, si può entrare nelle liste degli ospedali che eseguono tali operazioni, se si vuole usufruire del sistema sanitario nazionale, o farle più velocemente, per chi ne ha la possibilità, privatamente, anche all’estero, dove i risultati spesso migliori.
Fatte le operazioni, si tornerà in tribunale, con tutta la documentazione clinica, per chiedere il cambio anagrafico, per cui verrà sostituito il nome ed il sesso su tutti i documenti.
La persona transessuale, per il nostro ordinamento, diventa così un uomo od una donna a tutti gli effetti, passando, in maniera completa e definitiva, nel genere di elezione.
Cosa comporta tutto questo iter e quali sono gli assunti culturali che determinano l’impianto di questa legge?
Credo che la cosa più importante, specialmente in questo contesto, sia quella di mettere in evidenza come la persona che non si riconosce nel proprio sesso biologico, venga incanalata su di un percorso di normalizzazione, che rettifichi un presunto sbaglio della natura (a cui la scienza non sa ancora darsi spiegazione), e che la riconduca ad un corpo ed ad un genere il più possibile vicino ai rassicuranti stereotipi di maschio e femmina.
La classe medica ci racconta i transessuali con la classica storia di un’anima, un cervello, intrappolato nel corpo sbagliato, che si è dimostrata, da quanto i transessuali hanno preso il coraggio di narrarsi in prima persona, assolutamente stretta e riduttiva per la maggioranza dei vissuti reali di queste persone.
C’è voluto e ci vuole molto coraggio per produrre una “cultura” ed una letteratura trans, proprio perché, come si è visto, gli psichiatri hanno il potere di decidere chi sia genuinamente transessuale e chi meno e le persone che hanno l’urgenza vitale di accedere al percorso, preferiscono adeguarsi all’immagine che gli viene richiesta piuttosto che svelare il loro vero intimo, confermando alla fine quello che i medici pensano di sapere su di loro.
Anzi, spesso questa immagine stereotipata del transessuale arriva ad influenzare il transessuale stesso, che finisce per credere a queste storie, cercando di ritrovarle in se, in modo da avere una conferma per quello che sente di essere. E’ stato solo il confronto tra gli stessi transessuali tra di loro che ha fatto emergere le loro vere storie ed i sentimenti che le accompagnano, che hanno, pur nella diversità, alcuni tratti comuni.
Lo stereotipo del transessuale, che ha fatto molte vittime sulla sua strada, si basa su idee speciste, come il fatto che si pensava dovesse essere assolutamente eterosessuale rispetto al genere di elezione.
La violenza che il nostro ordinamento esercita sulla persona transessuale è lampante se si pensa che questa deve accettare su di sé, sul proprio corpo, tutto l’iter di rettificazione che comprende interventi chirurgici di demolizione e ricostruzione, per ottenere il cambio anagrafico, senza il quale è difficile avere una vita serena.
Il cambio anagrafico è infatti fondamentale sia per quelle persone che non vorrebbero modificare il proprio corpo ma che sentono invece la necessità di un riconoscimento sociale del loro genere di elezione, sia per quelle persone che vogliano adeguare la propria immagine al loro sentire, senza però arrivare ad eseguire tutti gli interventi, che arrivano fino alla sterilizzazione.
Infatti, quello che sembra fondamentale per i nostri giudici è che la persona transessuale sia resa incapace di procreare, attraverso l’intervento di isterectomia per i nati donna, attraverso la vaginoplastica per le nate uomini.
Come nel caso degli animali da reddito, questa violenza non ci accomuna ad altri paesi, dove, per ottenere il cambio anagrafico non è a volte richiesto nessun tipo di intervento.
In alcuni stati, infatti, basta la volontà di passare all’altro genere per avere il nome adeguato, mentre in altri sono richieste solo le cure ormonali.
L’Italia si distingue quindi per una certa rigidità, dove gli animali da reddito devono rimanere tali fino alla morte, e dove le persone vengono distinte rigidamente in maschi e femmine, e chi non si riconosce in questo stato di cose è trattato in maniera punitiva.
Nel caso degli animali sono i veterinari che hanno il compito di vigilare sullo status quo, mentre per le persone transessuali è la classe medica che dirige il loro percorso. Entrambi sembrano posti a guardia di grandi interessi, che si stagliano, abbastanza chiaramente sullo sfondo.
Perché nel nostro paese alberghi una tale arretratezza, che ingabbia i corpi in categorie fisse ed immutabili, è tema su cui riflettere.
Quello che è certo è che, come antispecisti, siamo chiamati ad una lotta di liberazione qui ed ora, perché questo ordinamento smetta di fare vittime, smetta di causare tanto versamento di sangue di tantissimi animali, umani e non.